Hermann_Hesse_1Nobel per la Letteratura nel 1946, Hermann Hesse (1877-1962) è arcinoto per romanzi come Il lupo della steppa (1927), Narciso e Boccadoro (1930) e Il giuoco delle perle di vetro (1943), i quali gli hanno garantito uno stabile successo che perdura tutt’ora, a più di mezzo secolo dalla sua scomparsa. In occasione del sessantesimo compleanno di Gustav Meyrink (1868-1932), nel 1928 (anno della pubblicazione de L’angelo della finestra d’Occidente) Hesse compose questo piccolo omaggio dello scrittore austriaco. Sebbene non tutte le tesi ivi contenute siano documentate, né condivisibili (specie quelle riguardanti i rapporti tra la sua narrativa e l’esoterismo), in queste righe rimane l’omaggio tributato da un grande scrittore a un altro grande scrittore, entrambi testimoni del Secolo Breve e autentici crocevia di Oriente e Occidente, passato e futuro. L’autore di Siddharta mostra di conoscere tutte le opere di Meyrink, insieme ai racconti (si veda il riferimento a Il soldato bollente, inserito nell’ultima edizione italiana de La morte viola). Il contributo di Hesse che qui riportiamo fu inserito nel leggendario «Cahier de L’Herne» dedicato allo scrittore austriaco nel 1976, e successivamente apparve in italiano nel volume collettaneo Meyrink scrittore e iniziato (Basaia, Roma 1983, pp. 99-101), nella traduzione di Marco Tarchi.

A. S.

Migliaia sono le persone che oggi fanno pagare a Gustav Meyrink il suo folgorante successo. Tanto per cominciare, hanno lasciato che per vent’anni scrivesse i suoi raccontini divertenti, aspri, spesso pieni di umorismo, senza concedergli un briciolo di attenzione. Per quei lunghi anni, Meyrink ha continuato a lavorare imperturbabile, sempre fedele allo stesso principio: saldare il conto con i borghesi senza la benché minima concessione al pubblico. Quando, all’età di quasi cinquant’anni, conobbe un enorme successo con Il Golem, la reazione dei lettori e della maggior parte dei critici fu per l’ennesima volta incerta e vaga. Ora ha scritto cinque romanzi, che gli sono valsi un inaudito successo, ed ecco che si verifica la regola del ritorno di fiamma: ogni grande successo si mette di colpo a destare i sospetti, e sul fortunato scrittore cominciano a piovere macigni.

Eppure, i libri di Gustav Meyrink – in particolare, Il Golem – hanno esercitato una profonda influenza anche su coloro che si son messi subito a trascinarli nel fango. Sarebbe vano incaponirsi a negare o rimpiangere quest’influenza. Gli effetti hanno sempre una causa, anche nel caso di Meyrink. Si è cercato di trovare queste cause, con un procedimento forse troppo unilaterale, nel suo “occultismo”. Certo, nei suoi romanzi, così come in numerosi racconti contenuti nella raccolta Pipistrelli, troviamo riferimenti estremamente precisi di “dottrine segrete”. Il testo mistico de La faccia verde e il discorso dell’attore ne La notte di Valpurga sono, come le parole di Hillel e del criminale nel Golem – staccate dal contesto romanzesco –, vere e proprie riesumazioni di dottrine occulte e gnostiche.

Ma non è questo a spiegare l’ascendente esercitato da Gustav Meyrink. La sua influenza sulle masse è dovuta a sensazioni, non soltanto a idee. Ne potremmo dedurre che egli utilizzi effetti speciali! Ma avremmo torto: la sensazione non poggia su effetti. Certo, Meyrink era diventato un maestro nel maneggiarli, ma ciò non spiega perché la sua opera abbia agito non solo sul grande pubblico, ma anche su persone più sottili. C’è qualcosa di più rispetto a meri procedimenti artificiosi.

Non sono né l’immaginazione né l’abilità tecnica dell’autore ad esercitare una simile forza. È la sua personalità. Guardando più da vicino, ci si rende conto che rispetto alle prime opere di vent’anni fa la tecnica di Meyrink non è affatto cambiata. È la stessa immediata e coraggiosa franchezza, la medesima gioia penetrante ad esprimersi ne Il soldato bollente e nelle altre novelle giovanili tanto odiate dal pubblico, la stessa che ritroviamo nella fiamma selvaggia e grezza degli ultimi romanzi. Può darsi che questo Meyrink non sia né un angelo né un saggio, che abbia effetti pericolosi, discutibili, persino nefasti – ma è e rimane un uomo di carattere: si esprime e si dà con una disinvoltura e una forza, con una fedeltà a se stesso e un fanatismo che, allo stato attuale della letteratura, devono per forza di cose affascinare. In questo, ricorda nettamente Wedekind.

L’impatto dei suoi libri non si basa dunque su qualcosa di morto o su un calcolo, ma su qualcosa di eminentemente vivo, di vero. Ad essere veri non sono solo i personaggi finemente spiritualizzati, o i passaggi in cui si afferma una decantata conoscenza mistica; lo sono altrettanto le volgarità e le pesantezze, la cattiveria profonda e aguzza, il gusto dello strepito e dello scandalo. La pittura e la letteratura più recenti hanno più volte intrapreso gli stessi cammini. Le loro opere, così come quelle di Meyrink, testimoniano una rottura con le convenzioni vigenti, il che non impedisce siano sottomesse ad altre norme; la tecnica di Meyrink, ad esempio, utilizza molti vecchi e logori cliché. Ma nel bel mezzo delle tecniche classiche utilizzate si sprigiona irrefrenabile una veemenza di cui invano cercheremmo eguali nella letteratura degli ultimi decenni. Che lo si accusi di esser grossolano o che gli si perdoni il suo essere espressionista – sta di fatto che abbiamo a che fare con qualcuno che ha qualcosa da dire, che ha il coraggio di essere se stesso. E niente ci è più necessario di questo coraggio.

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