Lunedì 14 dicembre 2015 – San Giovanni della Croce – a casa, a Taurianova

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Quando chi scrive ha un padrone, il lettore se ne accorge.

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Anche il più disattento. Il più superficiale. Anche quello che legge a malapena i titoli e qualche parola sparsa qua e là lungo l’articolo. Si scandalizza – spesso si schifa – anche chi guarda solo le foto e butta un occhio alle didascalie. La stampa è serva quando serve come serva. E non è certo buona stampa: è scribacchinismo per indole. A volte, schiavo del denaro. O del potere. Ma solo a volte. E, che sia per propria natura o per becero compromesso, il lettore lo avverte e scappa.

Giornalisti a mezzo servizio, dunque? A volte, nemmeno mezzo. Se son servi, son servi sempre. H24, come si dice oggi. Come certa ciurma da nave pirata, schiava senza possibilità di sbarco. Come sguattera di cucina di ottocentesca e triste memoria, unta di grasso e morta di fame. La stampa asservita, infatti, ingrassa non certo per le stitiche concessioni del padrone, ma semplicemente delle proprie laide menzogne. Figlie, sì, di sibili di pretese viperine di padroni spesso arrogantemente analfabeti, di rutti di presuntuosi da strapotere, di peti mentali di satrapi maremonti, senza fissa dimora politica, ma pur sempre menzogne di chi firma volendo firmare.

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La stampa serva serve solo il padrone che si sceglie e a cui si consegna spontaneamente; peraltro, non serve a nessuno. Non certamente agli onesti. Non ai leali. A nessuno di noi, per dire.

Spesso – e fortunatamente – la stampa serva non trova spazio vitale a casa della stampa, quella vera e libera. Allora si costruisce una vita virtuale indipendente, fatta di web accogliente come una troia di bordello… (Il piacere a pagamento, del resto, non si nega a nessuno)

Prova pietà, la Vecchia Checca, per certa stampaccia da bancarella virtuale, che ha il miraggio dell’approdo negli occhi ciechi e la burrasca mortifera nella mente confusa. Che non sa di carne, né di pesce. O, forse, di certo pesce, sì…

Di quel pesce putrido da vivo, che sguazza spavaldo nello stagno della malapolitica mafiosa e massona di questa mia Calabria, dove non esiste più la vergogna. Dove le tonache d’altare, sporche d’arroganza e contrabbando morale, si prestano alle più immonde campagne  solidali con la peggior politicazza inciuciona e approssimativa, fatta, essa stessa, di minestroni di ideali sbiaditi che impastano la destra con la sinistra, la demoNcrazia con la croce di un povero cristo che Cristo non è. Questa mia Calabria dove i mammasantissima della stramalapolitica sfilano per strade, palazzi e conventi come carri di carnevale bipedi, e, leggeri nella moralità e nella dignità, distribuiscono, manco fossero coriandoli di carta, promesse di finto impossibile lavoro e protezione. Questa Calabria delle ndrine, che parlano quando la Legge tace, e figliano voti marci nelle notti dei silenzi elettorali. Questa Calabria puttana che si vende nelle stanze del bisogno, ridendo spavalda al funerale dell’Onestà.

In questa lurida Calabria, troia per necessità, la massopolitica mafiosa ha sgravato, mettendo al mondo il figlio bastardo che, spesso, tenta di chiamare giornalista, ma che giornalista non è. Un pirla presuntuoso che dovrebbe costruire verginità che non esistono, santità improbabili, onestà impossibili. Uno sfrontato della penna virtuale che spera di essere letto e anche no. Uno sciocco.

Sì, uno sciocco.

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Fra me e me. Che non servo.

 

 

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