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«Fu una sconfitta, non una disfatta, l’8 settembre fu una disfatta». Claudio Graziano, capo di Stato Maggiore della Difesa, in una lunga intervista ha così ricordato Caporetto. Il generale ha ragione, cent’anni fa lo sfondamento austro-tedesco travolse le prime linee e poi le seconde sconvolgendo l’intero dispositivo italiano ma pochi giorni dopo, sul Grappa e sul Piave, vi fu il miracolo. I ragazzi del ‘99 e i veterani della Terza Armata tennero il fronte e a dicembre la grande battaglia d’arresto era vinta.

Un successo pieno reso possibile da una nuova, inedita consapevolezza. Come sostiene Graziano «i fanti compresero che la sconfitta non avrebbe portato la pace, ma la disgregazione nazionale. Realizzarono che non c’era altra via che resistere e vincere. Combattevano per salvare le loro famiglie e il Paese. Per la prima e unica volta nella storia l’esercito ebbe dietro tutta l’Italia». Fu lo “spirito del Piave” che un anno più tardi porterà i nostri soldati a Vittorio Veneto e, subito dopo, a Trento e Trieste.

Ricordarlo non guasta, anzi. Soprattutto in questo amarissimo anniversario. Allora lo choc costrinse parte della classe dirigente militare e politica ad un profondo esame di coscienza; a pagare rimase, solitario, Luigi Cadorna, il comandante supremo dell’esercito italiano. Il “dittatore militare” fu considerato il perfetto capro espiatorio dal governo e dagli alleati e subito scaricato nella pattumeria della Storia. Da qui la leggenda nera che attanaglia il personaggio. Ma, come argomenta Marco Mondini nel suo ottimo libro “Il Capo. La grande guerra del generale Cadorna” (Laterza), l’uomo non sbucava dal nulla: era «un generale tra altri generali, figlio di una cultura militare ultraconservatrice». Come gran parte dei suoi colleghi europei l’uomo era culturalmente e tecnicamente impreparato a condurre guerra industriale di massa del Novecento, le jungheriane “tempeste d’acciaio” di Verdun e delle Somme, dell’Yser e del Carso, ma non era nemmeno, come spiega Mondini, il macellaio psicopatico descritto da una certa vulgata.

Di certo il suo siluramento tornò utile ai veri colpevoli di Caporetto, in primis a Pietro Badoglio. Sull’argomento Graziano ha preferito sorvolare accennando soltanto che «la commissione d’inchiesta fu severa con tutti tranne lui». Evidentemente il generale, uomo colto e profondo, non ha ritenuto necessario riaprire una pagina dolente per l’Istituzione militare. Comprensibile. Va però rammentato che quella notte maledetta il callido marchese del Sabotino — Badoglio era affamato di titoli e riconoscimenti — si “dimenticò”, dal comodo letto nelle retrovie, di ordinare ai suoi ottocento cannoni di sparare. Il silenzio di Caporetto.

Travolto dalla ritirata, Badoglio rimase per ore introvabile, irreperibile al punto che i suoi sottoposti chiesero al roccioso generale Caviglia — il vero eroe di quella tragedia — di essere incorporati nelle sue truppe. Fecero bene. Il fuggitivo era in altre cose affaccendato. Da subito — come ricorda Domenico Quirico nel suo “Generali” (Neri Pozza) — il futuro duca di Addis Abeba s’impegnò «a scatenare i talenti dei suoi protettori massonici: emerse da quei negoziati, invece che con a condanna alla fucilazione alla schiena, con a carica di sottocapo allo Stato Maggiore».

Una tragicommedia che Mussolini, una volta al potere, pensò d’utilizzare a suo vantaggio. Nella testa machiavellica del duce i dossier secretati erano un’arma micidiale per piegare Badoglio ai suoi voleri. Un’illusione, il maramaldo era cortigiano perfetto — durante il regime divenne miliardario — ma anche un personaggio infido e pronto a tradire qualsiasi padrone. Non pago di Caporetto, Badoglio fu il regista della vera, terribile e totale disfatta dell’Italia. L’8 settembre 1943, la data del disonore.

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