Non bisognava essere un aruspico o un veggente per prevedere la clamorosa vittoria di Orbàn. Bastava conoscere un po’ l’Ungheria, la sua storia recente e remota, magari visitare le sue città, parlare con i suoi cittadini. Camminare e leggere. Informarsi.

Cose semplici, l’abc del giornalismo. E invece no. Per settimane i mass media occidentali hanno dipinto un’Ungheria immaginaria, fantasticando su un paese ansioso di scrollarsi di dosso l’ingombrante Viktor per tornare sotto l’ala degli euro burocrati. Cazzate. Il risultato tutto tondo di Orbàn — affluenza record  (68,8%, l’8 in più delle scorse elezioni), Fidez al 49, gli ultra nazionalisti di Jobbik al 20 e i rosso-verdi al 12 —  chiude ogni discussione.

Svuotate le urne e registrati i numeri vale però la pena di tornare sulle motivazioni di questo straordinario successo. Andiamo per ordine. Con buona pace dei commentatori nostrani, non si tratta di un voto emotivo, xenofobo, “antisemita” etc. etc. ma di una scelta ragionata, ponderata. Vi sono certamente motivi storici e culturali — come abbiamo raccontato nella nostra corrispondenza da Budapest (Il Giornale, 23 marzo, p. 22) , il patriottismo antitotalitario di Orbàn è in sintonia con il sentimento nazionale — ma vi è anche l’apprezzamento per una politica sociale seria  — aiuti alle famiglie, pensioni, sussidi per la natalità — e i risultati di una strategia economica attenta all’interesse nazionale.

Dal 2010 Orbàn ha incentivato gli investimenti stranieri con una tassazione del 9% del reddito delle imprese, la più bassa in Europa, conservando al tempo stesso il controllo  su settori chiave come le utilities, l’energia, le costruzioni e le banche rimaste sotto il controllo dello Stato per almeno il 50 per cento. Una ricetta che gli è valsa  l’ostilità di Bruxelles (e di Soros) ma che si è rivelata sui tempi medio-lunghi vincente.

Senza cedere pezzi di sovranità agli orgasmi internazionali e alla speculazione finanziaria, l’Ungheria è oggi uno dei Paesi dell’Europa centro-orientale che attraggono più investimenti diretti, con uno stock superiore agli 80 miliardi di euro. Come spiegava al Sole 24 Ore  l’ambasciatore italiano a Budapest, Massimo Rustico: «Le imprese straniere, soprattutto quelle tedesche, austriache, americane e anche molte italiane scelgono di investire in Ungheria guardando al costo del lavoro, alla qualità della manodopera, alla posizione geografica e alle prospettive di sviluppo dei mercati dell’area. Orban guarda ai suoi interessi ma sostiene il business».

«Il destino dell’Ungheria è nell’apertura internazionale, le esportazioni – ha continuato l’ambasciatore – nel 2017 sono cresciute dell’8,5% e hanno superato i 100 miliardi di euro, il 90% del Pil. E l’Italia, con un interscambio di 9,5 miliardi di euro, è il quarto partner commerciale di Budapest».

Dati e cifre importanti che i nostri sapientoni, prima di piangere sulle meste sorti dei “liberals” magiari, dovrebbero leggere e meditare.

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