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La Corea del Nord ha pochissimi estimatori (tra tutti il pirotecnico senatore Razzi…), molti nemici e rarissimi studiosi. Tra questi spicca per acume, serietà scientifica e ottima scrittura Clemente Ultimo, analista di politica internazionale. Il suo nuovo lavoro (COREA DEL NORD, Passaggio al Bosco edizioni, Firenze 2018, Ppgg. 224, euro 14.00) è una preziosa guida per comprendere — riprendendo la definizione di Churchill sull’Urss — «un rebus avvolto in un mistero che sta dentro a un enigma», un mondo chiuso e apparentemente insondabile che l’autore ha cercato (con successo) di decifrare.

Per Ultimo le necessarie chiavi interpretative per capire il “Paese eremita” vanno ricercate nella tormentata storia della penisola, più precisamente nella seconda metà del XIX° secolo quando la fragile monarchia coreana venne investita e travolta dall’”età dell’imperialismo”. Vaso di coccio tra vasi di ferro, la piccola nazione rimase stritolata dal triplice duello tra Cina, Giappone e Russia. Gli eventi bellici vanificarono i tentativi di modernizzazione interna e ridussero sempre più l’autonomia dei deboli governi di Seul costretti, dopo la guerra russo-giapponese del 1905, ad accettare la satellizzazione del Paese nell’orbita nipponica.

Tokyo fu implacabile: il 22 agosto 1910 l’ultimo sovrano fu costretto ad abdicare e cedere “tutti i diritti di sovranità” all’imperatore del Giappone e la Corea divenne una provincia (o meglio una colonia) del “Tenno”. Da subito i nuovi padroni s’impegnarono in una pesantissima campagna per sdradicare ogni traccia di identità nazionale — lingua, tradizioni, religione — e avviarono una politica di feroce sfruttamento economico. Tutte le risorse agricole e minerarie passarono sotto il controllo dei grandi gruppi giapponesi che imposero condizioni di lavoro sempre più dure, sempre più gravose. In questo tetro scenario prese forma un variegato movimento nazionalista frammentato tra riformisti filo occidentali guidati da Syngmar Rhee (esule negli Stati Uniti)  e un nocciolo duro di bolscevichi sostenuti dall’Urss. Dalla confinante Manciuria il Partito Comunista di Corea, fondato nel 1925, dalla  intraprese modeste azioni di guerriglia contro gli invasori, ma solo nel 1941 Stalin decise di inquadrare i coreani nell’Armata Rossa: tremila combattenti formarono l’88° reggimento, il loro comandante era Kim Il Sung.

Queste forze formeranno l’ossatura del regime comunista che si installerà sopra il 38° parallelo dopo il crollo del Sol Levante; protetto dalle truppe sovietiche Kim radicò il suo potere nella parte settentrionale del Paese mentre a sud gli americani puntarono su Rhee e le componenti nazionaliste. Nel 1948 la divisione della penisola era una realtà.

Il 25 giugno 1950, imbaldanzito dalla vittoria di Mao in Cina e forte dell’appoggio militare e politico di Mosca, il dittatore decise di sferrare un micidiale attacco che travolse le linee sudcoreane. Fu l’inizio della terribile guerra di Corea che si protrasse, tra alterne vicende, sino al 19 luglio 1953. Un bagno di sangue alla fine inutile: l’armistizio fissò nuovamente sul famigerato parallelo la linea di demarcazione tra le due Coree invalidando per sempre i sogni di conquista di Kim.

Come sottolinea Clemente Ultimo, la brusca frenata costrinse il leader a rivedere piani e prospettive. Conscio che i suoi potenti alleati non avrebbero rischiato una guerra mondiale per la Corea, Kim scelse di consolidare il suo potere con una girandola di crudeli purghe interne e la militarizzazione totale del suo feudo. Da qui nel 1956 l’inizio del programma nucleare visto dalla dirigenza nord coreana come una sorta di “assicurazione sul futuro“. Un calcolo folle, ma a suo modo razionale. Sebbene il costossimo investimento abbia dissanguato le stremate casse di Pyongyang, le bombe hanno permesso a Kim Il Sung e ai suoi eredi Kim Jong Il e Kim Jong Un di perpetrare nel tempo un’inedita “monarchia comunista” e giocare una spericolata partita internazionale con la superpotenza statunitense e gli attori regionali (Sud Corea, Cina, Giappone, Russia).

Ma quanto, al di là della retorica governativa, vi è di marxista nella quotidianità del “Paese eremita”? L’autore scorge l’eredità stalinista e maoista nel forsennato (e un po’ ridicolo…) culto della dinastia, nella onnipresenza del Partito-Stato che tutto vede e controlla, nella disastrosa pianificazione economica, nell’universo concentrazionario in cui langue un numero imprecisato ma importante di oppositori veri o presunti. Ma vi è dell’altro: da anni il termine comunismo è stato abbandonato in favore dello “Juche” — un mix di socialismo, xenofobia e confucianesimo—, del “Songun” — una linea ultra militarista — e, recentemente del “Byungjin” — un timidissimo accenno di riforme economiche —. Anche gli eremiti talvolta si evolvono e scelgono vie misteriose, enigmatiche. Forse sorprendenti.

 

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