In quell’angolo di cielo riservato ai visionari e ai futurologi da qualche tempo c’è una certa agitazione. Lo spirito del conte Ilarione Pettiti di Roreto non ha requie. Agitando il riposo dei suoi celesti colleghi, l’aristocratico piemontese continua ad imprecare, moccolare, maledire. Insomma è incazzatissimo. Al padre nobile delle ferrovie del Regno di Sardegna non va proprio giù la triste commedia che si sta consumando proprio nel municipio di Torino, la sua città.

Da lassù Ilarione si chiede come sia possibile che a distanza di centovent’anni dalle sue epiche battaglie per le strade ferrate — quanta fatica per convincere quel testone di Carlo Alberto… — vi siano nuovamente dei passatisti chiassosi a fermare un progetto, a bloccare binari, a impedire una galleria?

Possibile, si chiede angosciato il conte, che nessuno si ricordi se non di lui, almeno degli scritti del giovane Cavour sul futuro delle ferrovie? Proprio il buon Camillo nel lontano 1840 — al tempo non ancora Padre della Patria ma ammiratore convinto di Ilarione — aveva intuito che la locomotiva non soltanto avrebbe fatto di «Torino una città europea, punto d’unione del nord e mezzogiorno» ma sarebbe riuscita a far «scomparire gli ostacoli e le distanze che separano gli abitanti d’Italia fra loro e che impediscono che essi formino una sola e grande nazione». L’Unità attraverso il progresso, la modernità per l’indipendenza. Cavour e Roreto avevano già chiaro il futuro. I grillini di oggi hanno oscuro anche il presente…

Da qui la difficoltà a spiegare — se mai fosse possibile — al corrucciato Ilarione e a Camillo Benso la danza macabra che affligge in questi mesi l’Italia intera. Di sicuro gli spiriti dei due nobiluomini ci risponderebbero che anche in quel ‘840 ad opporsi alla ferrovia erano in tanti. Ma Carlo Alberto — personaggio complesso ma non stupido — non ebbe dubbi e con gran sconcerto dei conservatori decise per la ferrovia. Una scelta economica ma anche politica che l’Austria di Metternich non approvò. Anzi.

Vale la pena di ricordare che i prodromi delle guerre d’Indipendenza furono fissati — accanto alle congiure e ai moti — sulle rotaie. La rottura definitiva tra Torino e Vienna va ricercata anche nelle opposte geopolitiche ferroviarie austriache e piemontesi, nei differenti progetti trasportici, uno transadriatico (quello asburgico) fissato su Trieste e l’altro transtirrenico (piemontese e poi unitario) imperniato su Genova: due paradigmi di modernizzazione allora inconciliabili.

 

Storie di ieri, certo, ma nuovamente attuali. Il lunare ministro Danilo Toninelli — sì, proprio quello perdutosi nell’immaginaria galleria del Brennero… — da mesi parla e straparla sulla Tav, ingarbugliando numeri, confondendo tracciati, costi e geografie. Esasperato Paolo Foietta, commissario di governo per l’Alta velocità ha ricordato che «i dati citati dal ministro riguardano un generico rapporto tra i costi in Italia rispetto agli altri Paesi e nulla c’entrano con la Torino-Lione. Fare un chilometro nella pianura francese è ben diverso che bucare l’Appennino come abbiamo dovuto fare noi per collegare Bologna con Firenze». Un brusco richiamo alla realtà a cui l’infrangibile pentastellato ha replicato un cocktail di scemenze e bugie. A fine ottobre Toninelli si è inventato che «Macron ha escluso la Tav dalle priorità infrastrutturali proprio dopo aver valutato costi e benefici e non ha stanziato risorse per finanziare il percorso della galleria a Lione». Peccato che negli stessi istanti le ruspe francesi stavano scavando a Saint Martin de la Porte il completamento del tratto gallico della tratta. Qualche giorno dopo Bruno Bollell, referente dell’Eliseo per Lione, ha ribadito una volta di più l’appoggio francese al progetto, avvertendo che abbandonare l’Alta velocità obbligherebbe i due Paesi a «restituire all’Europa centinaia di milioni, proprio quando Bruxelles è pronta ad ulteriori investimenti».

Tutto chiaro? Non per il ministro. Volando in appoggio del M5S torinese e alla sindaca Appendino, autori di un farsesco ordine del giorno No Tav, il Danilo ha ribadito testualmente che il «governo punta a fare dell’Italia un paese all’avanguardia. Per farlo abbiamo pertanto previsto incentivi sulla mobilità elettrica ed è nostra intenzione lavorare per un futuro a basse o zero emissioni». Dunque «investiremo altresì risorse pubbliche per attuare un serio piano nazionale per le piste ciclabili». Olè. Il nostro Paese continua a pagare salatamente i suoi terribili ritardi infrastrutturali — ponti, porti, strade, ferrovie etc. — accumulati in quarant’anni e più ma Toninelli promette bici per tutti…

Ad avvelenare ancor più il dibattito sotto la Mole si è palesato anche Gigino Di Maio che, ignaro delle rigide clausole europee, ha annunciato che i soldi della Tav saranno destinati alla realizzazione della metro 2 di Torino. Subito dagli imprenditori è arrivata una sonora pernacchia. Corrado Alberto, presidente di Api Torino, ha subito ribadito «Di Maio non ha capito nulla. Non c’è e non ci può essere scambio tra Tav e metro: sono entrambe essenziali. Piuttosto preoccupa che vengano buttati soldi in una società decotta come Alitalia».

La partita sulle infrastrutture (e il futuro dell’Italia) rimane così drammaticamente aperta. Con l’incognita Salvini. Allora una domanda: sino a che punto il leader leghista può lasciare spazio ai suoi strambi alleati su questioni così strategiche? E ancora, come faranno i ministri leghisti ad accettare il pesante ridimensionamento dei fondi per le grandi opere (lo 0,2 per cento del Pil, contro l’1,2 stanziato per pensioni e reddito di cittadinanza)? Non farebbe meglio Matteo a portare il dossier Tav in Parlamento e sfidare gli ingombranti compagni di viaggio? Vedremo.

 

Intanto, mentre i No Tav sognano di collegare Lione e Torino con una pista ciclabile, oltre la frontiera è in atto una vera e propria rivoluzione logistica. Qualche esempio. Sul Baltico è in costruzione la linea A.V che collegherà Germania e Polonia alla Finlandia. Da Tallin, in Estonia, un tunnel sottomarino lungo 100 chilometri salderà Helsinki alla rete ferroviaria continentale. In Svizzera dal 2016 i treni sferragliano a 250 chilometri orari lungo i binari del nuovo traforo del San Gottardo (57 chilometri). Un’impresa colossale che salderà, attraverso il tunnel del Lotschberg (aperto già nel 2007) e il tunnel del Monte Ceneri (completamento previsto nel 2020) — oltre 100 chilometri di scavo complessivi —, in un unico asse la Confederazione e, soprattutto, l’Europa settentrionale con il Mediterraneo (e quindi Genova, se i grillini non bloccano il terzo valico). È il progetto “Alptransit”, un piano d’investimento di oltre 22 miliardi di euro deciso, approvato e finanziato dai cittadini “rosso – crociati” nel 1998 con un referendum popolare.

Un investimento costoso ma anche una scommessa storica. Grazie al nuovo sistema trasportistico i confederati potranno trasferire un flusso enorme di merci dalla gomma sul ferro, salvando così l’equilibrio delle loro valli, delle loro città. Ma non solo. Come annota Remigio Ratti sul quaderno di “Limes” dedicato alla Svizzera «Alptransit è stato pensato negli anni Ottanta-Novanta del secolo scorso in funzione di un radicale miglioramento dell’offerta per le merci, in particolare con l’obiettivo del trasferimento dalla strada alla ferrovia mediante il carico su speciali vagoni di contenitori e rimorchi stradali. Si prevede il raddoppio del traffico delle persone, mentre l’offerta commerciale aumenterebbe di due terzi nel 2020 con treni lunghi 750-800 metri, rispetto ai 530 odierni…. Balza all’occhio soprattutto il fatto che la Svizzera si sia presentata autonomamente e in anticipo rispetto ai progetti europei… Ecco la “vocazione della Svizzera al transito”. Si tratta di un fattore geopolitico determinante per l’esistenza stessa della Confederazione, da leggere in un qualificato quadro d’interessi e di ricerca tra le grandi forze politiche e gli interessi economici continentali». Esempi su cui il tristo Toninelli dovrebbe riflettere.

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