I mass media nostrani strillano di trionfo dei socialisti spagnoli e tirano un sospiro di sollievo. Le cose però sono un po’ diverse. Come a malincuore ammette Aldo Cazzullo sul Corriere la «vittoria è più tecnica che numerica. Più nei seggi che nei voti. La somma dei tre partiti di destra — Pp, Ciudadanos e Vox — è molto vicina a quella dei socialisti e di Podemos. Ma il sistema elettorale punisce la frammentazione».

Di certo la scena politica spagnola rimane in pieno movimento e difficilmente i risultati delle elezioni del 28 aprile potranno innescare una fase di stabilità. Troppi i problemi, tante le delusioni, molti i rancori. Il quadro non è semplice: a partire dal 2017 la questione catalana si è intrecciata fatalmente con la crisi dei partiti di potere accusati (a ragione) di corruzione e malgoverno, i problemi socio-economici e le tensioni legate all’immigrazione. In più, dato ineludibile, sullo sfondo c’è il crescente malessere delle Spagna “profonda” verso il “politicamente corretto”, la stramba deriva neogiacobina imposta dai vari governi socialisti e accettata, subita, condivisa dai popolari di Rajoy.

È l’eredità avvelenata di Josè Luis Zapatero, il vincitore a sorpresa delle elezioni del 2004; un successo imprevisto raggiunto solo grazie ai terribili errori fatti da Aznar (il superfavorito di allora) nei giorni successivi ai massacri del 11 marzo a Madrid (191 morti negli attacchi terroristici). Una svolta letale. Appena arrivato al potere il premier socialista promosse una serie di brusche accelerazioni con l’obiettivo dichiarato di stravolgere in profondità la società civile spagnola, i suoi costumi, i suoi valori, la sua storia. All’inizio lo “zapaterismo” si annunciò come una variante superlaicista del socialismo europeo, un’ipotesi di rottura basata nel rifiuto ideologico del compromesso su cui era stata costruita la transizione pacifica dal franchismo alla democrazia. Fu il primo passo. Alla riconciliazione nazionale come superamento dei lutti della guerra civile si sostituì la manichea “legge sulla memoria storica”: i buoni (ovviamente tutti i nostalgici della repubblica) indorati sui palchi mediatici, i cattivi (falangisti, franchisti, monarchici, conservatori, anticomunisti…) zitti o al bando, alla berlina. O magari in galera. Tacitati i “nostalgici” e  critici,  seguì la rottura tra Stato e Chiesa sigillata sulle leggi sull’aborto facile anche per le minorenni, il divorzio ultrarapido, il matrimonio per gli omosessuali, l’esaltazione giuridica di un femminismo radicale quanto intollerante, stupido. Risultato: un’operazione metapolitica di ampio raggio (una lezione per le destre d’ogni latitudine…)  accompagnata e supportata da un iper federalismo pasticcione e una politica economica neo-assistenzialista. Nella sua follia iconoclasta Zapatero cercò e ottenne il sostegno di ogni minoranza. Per la Spagna il prezzo fu alto, altissimo; tutti i clienti passarono all’incasso ma i più astuti furono i separatisti catalani (un rumoroso e molto famelico spezzone della comunità regionale) che ottennero da una sbadata Madrid un’egemonia spropositata sul territorio.

Ma ogni storia, anche la più brutta, ha una fine. Nel 2011 la crisi economica costrinse Zapatero — ottimo demagogo, pessimo economista —  alle dimissioni. L’incubo era finito? No. I popolari di Rajoy, tornati al potere, si limitarono ad applicare le misure finanziarie richieste dalla Merkel (la Germania controlla il grosso del debito pubblico spagnolo) senza però smontare la gabbia ideologica zapaterista, anzi proseguirono sullo stesso devastante cammino. Una follia continuata sino alla loro rovinosa caduta nel giugno 2018. Travolto dal problema catalano e massacrato dal più grave scandalo di corruzione della Spagna democratica — l’Operation Gurtel: 351 anni di carcere per 29 notabili e sodali del partito popolare —, Rajoy dovette cedere il potere al socialista Pedro Sanchez, l’ultimo zapaterista spendibile. Dalla padella alla brace.

Dopo aver giurato senza Bibbia nè crocifisso (un inedito assoluto in Spagna) e sproloquiato a destra e manca contro “fascisti” e “razzisti”, Sanchez cercò di costruire una coalizione arlecchino — socialisti, populisti, secessionisti e marxisti assorti — schiantatasi miseramente lo scorso febbraio sulla legge Bilancio. Unica via d’uscita, dopo solo otto mesi di governo, altre elezioni. Olè.

Un panorama di rovine. Della politica iberica, dopo tre lustri di forzature, giravolte, ideologismi e fallimenti, rimane solo un amaro cocktail, ormai imbevibile per larga parte dell’elettorato iberico. Con una novità: Vox.

L’ascesa impetuosa quanto inattesa del movimento fissa una discontinuità sostanziale e rappresenta una prospettiva interessante. Per la prima volta dopo la fine del franchismo a destra, orgogliosamente a destra, c’è una forza credibile e finalmente competitiva. Qualcosa di ben più serio e strutturato di Fuerza Nueva di Blas Pinar (negli Ottanta piazze piene e urne vuote) e dei tanti/ troppi esperimenti — molti folcloristi, pochissimi seri — dei vari gruppi e gruppetti neo o post falangisti: un trentennio popolato da una sempre più ristretta galassia di camice azzurre e “Cara al Sol”. Saluti romani, pensionati, pellegrinaggi e tanta malinconia. Un piccolo, innocuo mondo antico. Esercizi di marginalismo.

Vox nasce nel 2016 e in prima battuta sembra l’ennesimo partitino dell’ultradestra iberica: alle elezioni ottiene lo 0,2 per cento. Niente. Meno di niente. Ma Santiago Abascal e Ivan Espinosa de los Monteros, il segretario e il vice, non demordono. Ambedue vengono da note famiglie franchiste, hanno una storia nel Pp, un po’ di danarosi sostenitori (non guasta..) e conoscono bene amici e avversari. Ma cosa più importante comprendono i tempi e logiche della comunicazione, dei media, della rete. Sono loro, prima e meglio di tutti i concorrenti simil destrosi, a sforzarsi d’interpretare la profondità del “malessere spagnolo”.

La crisi catalana diventa l’occasione. Mentre il governo centrale annaspa e i popolari sono all’angolo, è Vox a portare nelle piazze di Madrid e Barcellona folle di spagnoli fieramente unitaristi; è ancora Vox a dare coraggio e fierezza ai patrioti di Catalogna e a lanciare l’idea delle bandiere sui balconi di tutta la Nazione. È sempre Vox a parlare un linguaggio — inaudito per la neolingua zapateriana e la casamatta mediatica radical-chic — di rottura, di liberazione: sovranità e unità, orgoglio e concordia nazionale, gestione controllata delle frontiere, idee nuove (ancora tutte da verificare…) in economia e sguardo molto critico sull’Europa e le sue burocrazie.  Sullo sfondo la Spagna eterna. Per Abascal: «una nazione non è fatta solo dai vivi. È fatta anche dai morti. E da quelli che devono ancora nascere. Noi difendiamo anche loro».

Tutte bestemmie per i sinistrosi iberici ed europei che hanno subito strillato al “pericolo fascista” e ingranato la macchina del fango. Ma sarebbe sciocco immaginare Vox come un conglomerato di bacchettoni reazionari o di nostalgici di passati troppo passati. In una lunga intervista a “Le Figaro” Ivan Espinosa de los Monteros, il numero due, ha sottolineato con forza che «certo, crediamo nei valori conservatori, vogliamo un’immigrazione legale nel rispetto dei valori occidentali e detestiamo il “politicamente corretto”, ma ritieniamo giusta la separazione tra Stato e Chiesa e il rispetto per i diversi orientamenti sessuali. Non c’interessano Bannon, Trump, la Fox News, la NRA, i predicatori evangelici. Talvolta, ascoltandoli, temo d’essere diventato socialista… Noi siamo altro. Siamo spagnoli».

Come confermano i numeri una linea vincente. Dopo l’exploit in dicembre nell’Andalusia (12 per cento in un feudo da sempre socialista) e i due milioni e mezzo di voti alle elezioni nazionali (10 per cento e 24 deputati) il movimento Vox si radica, crea consenso. Cresce. Il prossimo passaggio sono le elezioni europee e le possibili alleanze transnazionali. Vedremo.

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