«Quanto costa la Groenlandia?». In molti, quest’estate, hanno pensato che fosse l’ennesimo scherzo di Donald Trump. Ma quella del presidente statunitense — personaggio stravagante ma di certo non uno stupido, anzi —  era molto di più di una battuta. Quasi un programma…

Nulla di nuovo, in verità. Ogni amministrazione di Washington ha sempre guardato con attenzione ai destini della più grande (e fredda) isola del mondo, mal sopportando — sempre alla luce della fatidica dottrina Monroe — l’autorità della Danimarca su un territorio geograficamente appartenente al continente americano. La proposta trumpiana, poi, non è una novità assoluta. Nel 1867 gli Stati Uniti, dopo aver acquistato l’Alaska dalla Russia per 7,2 milioni di dollari del tempo, fecero una prima offerta ai danesi per la Groenlandia e l’Islanda (allora dominio di Copenhagen) e le Isole Vergini Danesi. Gli scandinavi allora rifiutarono ma nel 1917, incalzati dagli eventi bellici che minacciavano la loro precaria neutralità, cedettero per 25 milioni il possedimento caraibico (con l’eccezione di Water Island svenduta a prezzi di saldo, 100mila dollari, nel 1944).

Durante la seconda guerra mondiale, approfittando dell’occupazione tedesca della Danimarca, gli USA occuparono la colonia e costruirono nove basi. Una curiosità: i soldati statunitensi, con l’aiuto di una pattuglia autoctona di sciatori (la Slaedepatruljen Sirius), individuarono e distrussero quattro stazioni meteo costruite segretamente dai germanici sulla costa orientale.   Terminate le ostilità il presidente Harry Truman tornò alla carica e nel 1946 offrì a Copenhagen 100 milioni di dollari per la sola Groenlandia (l’Islanda era già indipendente da due anni) ma una volta di più i danesi risposero picche. Gli americani abbozzarono ma appena un lustro più tardi, impugnando le logiche della guerra fredda, imposero ai malmosti scandinavi una massiccia presenza militare imperniata sulla Thule Air Base, la struttura militare più settentrionale del pianeta, e trasformarono l’intera isola nel loro antemurale artico.

Dopo il 1989 e l’implosione del blocco sovietico, l’interesse nord-americano sembrò scemare e la presenza militare gradualmente si ridusse assieme — con poco entusiasmo dei 57mila abitanti — ai finanziamenti e ai posti di lavoro assicurato dall’indotto. Il parziale ripiegamento del Pentagono spaventò soprattutto i governi danesi che si ritrovarono costretti a coprire l’imprevisto buco economico. Un vero e proprio salasso: da allora, per assicurare pace sociale, legami strategici ed economici (e arginare il movimento indipendentista), Copenhagen spende ogni anno 500 milioni di euro, la metà esatta del budget annuale della sua remota provincia. Tanti quattrini ma sempre troppo pochi per i secessionisti di Naleraq, con il 13 per cento alle legislative del 2018 il quarto partito isolano, abbastanza invece per la maggioranza dei locali — un impasto tra nativi inut, eredi dei vichinghi e un pugno di coloni danesi — che pragmaticamente preferiscono mantenere ben saldi i legami con la lontana ma munifica madrepatria. Almeno sino a quest’estate.

L’offerta trumpiana e il netto rifiuto della premier danese Mette Frederiksen — socialdemocratica e sovranista, un ossimoro tutto scandinavo — a cui è seguito l’annullamento della visita ufficiale del presidente nella città della sirenetta, ha improvvisamente rivitalizzato la microscena politica groenlandese. Con esiti imprevisti e, a tratti, persino divertenti. Come raccontano gli esterrefatti inviati della grande stampa internazionale, da settimane a Nuuk, la mini capitale artica (17mila abitanti, un borgo…), tutti dibattono e si confrontano: nel parlamentino insulare, nei caffè, all’università, nelle case è un rincorrersi di voci e illusioni, ambizioni e sogni. In moltissimi sperano in “The Donald” al punto che “Sermisiaq”, l’unico settimanale editato lassù, ha pubblicato in copertina il volto del cotonato inquilino della White House titolando “Go Trump – Make Greenland great again” e applaudito sia all’annuncio dell’apertura di un un consolato a stelle e strisce a Nuuk che all’invito alla Casa Bianca dei leader groenlandesi.

Ovviamente, sul fondo della discussione sono riemersi i mai sopiti rancori contro i “colonizzatori”; una polemica abbastanza inutile se si pensa alla storia di questa terra desolata, ma che assume senso e sostanza nell’attualità: a tutt’oggi i posti apicali dell’amministrazione e dell’economia isolana sono appannaggio dei danesi. E poi, grazie (o malgrado) Trump, ha ripreso forza anche l’annoso problema delle discriminazioni — ricordate il bel romanzo di Peter Høeg “Il senso di Smilla per la neve”? —  contro i sedicimila e più nativi residenti in Danimarca. Come ricorda “Le Monde” da due anni «la parola “groelaenderstiv”, ovvero zozzo come un groenlandese, è entrata nel dizionario ufficiale della lingua danese». Non a caso Poul Krarup, direttore di “Sermisia” si chiede il perché «nel regno siamo indesiderati, osteggiati, umiliati mentre gli islamici sono considerati benvenuti?».

Domande senza risposte. Forse ormai inutili. Di certo gli inuit e i loro coinquilini europei spiaggiati nei secoli sulle banchise, sono ora davanti ad un bivio. Ad una scelta decisiva a cui la piccola Danimarca difficilmente saprà o potrà opporsi a lungo. La provocazione del presidente americano è, infatti, una delle tante mosse in una partita ben più grande e micidiale: il grande gioco dell’Artico. Si tratta di un duello geopolitico che trascende i vecchi confini coloniali e le antiche alleanze della guerra fredda e si inserisce nella ridefinizione dell’intera zona settentrionale del pianeta.

Lo scioglimento dei ghiacci — una catastrofe ecologica ma, purtroppo, anche una magnifica occasione nella geopolitica dei trasporti — sta, infatti, solleticando ambizioni d’ogni tipo: nuove rotte marittime, mire militari, progetti geoeconomici. In primis, quelli di Pechino. Per la Cina, ormai convinta di strappare entro il 2049 la primazia mondiale agli USA, l’Artico è un’area centrale del suo progetto espansionistico. Oltre a finanziare la Russia per l’apertura della rotta inter modale (navi più treni) transsiberiana e investire enormi capitali in Finlandia e Estonia in infrastrutture portuali e ferroviarie (tra tutti il super tunnel sotto il Baltico, tra Helsinki e Tallin), i mandarini rossi si muovono a tutto campo, dallo stretto di Bering all’antico possedimento danese. Non a caso. Sotto il ghiaccio groenlandese vi sono enormi risorse ancora non sfruttate: uranio, diamanti, oro, ferro, zinco, rame, gas, petrolio e vasti depositi di terre rare. Un patrimonio che la piccola Danimarca difficilmente potrà valorizzare come ben sanno gli esperti della China Communitications Construction Company, gli omini mandorlati che lo scorso giugno hanno proposto ai politici locali contratti con cifre (per loro) fantasmagoriche. Miniere e fabbriche (con personale tutto cinese) in cambio di soldi e l’impegno a costruire tre aeroporti e tante stazioni “meteo-astronomiche”. Negli stessi giorni gli aerei della Nato hanno rilevato nelle acque dell’isola la presenza di sottomarini cinesi. Per Washington un campanello d’allarme.

La ruvida accelerazione trumpiana va quindi letta e analizzata su questi schemi: è molto improbabile che la grande isola a breve s’incastonerà come ennesima stella nella bandiera della federazione, ma di certo non diverrà un terminale (e tantomeno una base) di Pechino. Ancora una volta l’Europa (via Danimarca) rimane a guardare.

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