Alle 18.57 del 9 novembre di 30 anni fa crollava il Muro di Berlino. All’improvviso. In una drammatica conferenza stampa l’imbarazzato Gunther Schabowski — membro del Politburo della SED, l’agonizzante partito comunista tedesco orientale — annunciava balbettando l’immediata apertura delle frontiere. Dopo pochi minuti una folla enorme di cittadini della Repubblica Democratica Tedesca iniziò a premere sulla barriera. Alle 23, in mancanza di direttive, il colonnello Harald Jager, uomo di buon senso, diede l’ordine alle guardie d’aprire il passaggio. Dall’Est una valanga umana si precipitò attraverso i varchi per abbracciare i cittadini dell’Ovest. Quella notte storica segnò il termine della guerra fredda e, rapidamente, dell’impero sovietico. Nell’arco di due anni l’intera Europa orientale e la Russia stessa si liberarono delle democrazie popolari, dei partiti-Stato, delle polizie politiche, del filo spinato, delle stelle rosse. Il tramonto inglorioso del comunismo ma non, come qualche illuso d’oltre Atlantico pensava, la fine della Storia.

Sui cocci dell’artificiosa repubblichetta di Honecker prese forma e sostanza la riunificazione tedesca voluta da Hemult Kohl, una medio-grande Germania apparentemente solida e rassicurante, membro composto e gentile di un’Unione Europea tutta da costruire nell’armonia e nel rispetto reciproco. Per una micidiale combizione di effetti imprevedibili — “l’eterogenesi dei fini” prevista dal filosofo Wilhelm Wundt —  le cose, purtroppo, sono andate in modo diverso e il conto salato, salatissimo di quell’evento straordinariamente positivo è stato altissimo. Per tutti, tedeschi dell’ovest, tedeschi dell’Est ed europei d’ogni latitudine.

Il sogno spezzato

Tra il 1991 e il 1998 per finanziare la ricostruzione del desolato ex feudo rosso e lo spostamento della capitale a Berlino, il governo di Bonn spostò da Ovest ad Est almeno duemila miliardi di euro con in più 1247 miliardi di investimenti esteri di cui 39,6 provenienti dall’Italia. Un terremoto finanziario che incrementò l’attratività del marco tedesco come moneta d’investimento ma mandò in tilt il rodato Sistema Monetario Europeo (SME) che stabiliva parità valutarie tra gli Stati europei e penalizzò pesantemente la lira e la sterlina. Un big bang che terrorizzò i vari governi e velocizzò in modo frettoloso e sciagurato l’introduzione dell’Euro. Le conseguenze sono note.

Ma trent’anni dopo la caduta del Muro — e al netto delle dovute, giustificate celebrazioni — qual’è il bilancio finale? Di certo l’Europa dei popoli e delle libertà sognata e invocata per tutto il quarantennio postbellico tarda ad affacciarsi, a palesarsi. L’odierna surreale crisi dell’Unione Europea guidata dalla baronessa germanica Ursula Von der Leyen sommata alla Brexit, al tumore catalano, al cinismo dei francesi e l’euroscetticismo dei governi dei paesi ex comunisti e di vasti elettorati in Occidente, evidenziano, sottolineano il fallimento storico degli inadeguati gruppi dirigenti liberali o socialdemocratici che hanno gestito (malamente) questa lunga parentesi.

Uno tsunami sembra alle porte e l’ansimante Germania di Angela Merkel, ufficialmente unita ma politicamente ed economicamente sempre più frammentata, può esserne l’epicentro. Le dure, solide cifre non ingannano:  ad Est i salari medi rimangono inferiori del 20 per cento rispetto all’Ovest, la produttività anche. Nell’antica RDT operano soltanto 37 delle cinquecento imprese leader tedesche e un milione e novecentomila persone (soprattutto giovani) si sono trasferite nella parte occidentale.

La presenza inattesa: Alternative für Deutschland

Non deve quindi stupire il successo clamoroso di Alternative für Deutschland, il partito “rivelazione” che lo scorso 27 ottobre ha conquistato in Turingia il 23,4 dei consensi superando la CDU retrocessa dal 33,5 al 21,8.  Anche in questo caso si sono alzati alti, altissimi gli allarmi sul ritorno del nazismo e pochi giorni fa a Dresda è scattata l’emergenza ufficiale anti “peste bruna”.

Semplificazioni banali se non del tutto fuorvianti. Come ben analizza il ricercatore Clemente Ultimo nel suo ottimo saggio “Alternativa per la Germania” (Passaggio al Bosco editore, euro 15) , AfD è tutt’altra cosa di un folkloristico gruppuscolo di nostalgici hitleriani stile i “nazisti dell’Illinois” di John Belushi, non è una gemmazione della sulfurea NPD e non è nemmeno assimilabile, per genesi ed evoluzione, ai velleitari tentativi  — la Deutsche Volksunion, i Republikaner — vetero patriottici e pangermanici.

Ma andiamo per ordine. Fondata nel 2013 dal professore di macroeconomia Bernd Lucke come ipotesi eurocritica e anti austerità, AfD incassò subito 2,1 milioni di voti — provenienti tanto da destra come da sinistra — attestantosi al 4,7 per cento. Mancata per un pugno di voti la soglia del cinque, necessaria per entrare nel Bundestag, il movimento s’impose sin da subito — interpretando ed incanalando il profondo “disincanto” verso i partiti tradizionali — nelle regioni orientali con numeri importanti. Poco dopo la svolta definitiva. Nel 2015 l’improvvida apertura delle frontiere all’immigrazione decisa dalla Cancelliera scosse in profondità il Paese. Apparentemente basata su motivi “umanitari” la mossa della Merkel celava anche altri, meno nobili, motivi. Come l’autore rileva:

«Molti ambienti impreditoriali e politici sostengono la necessità di favorire l’ingresso in Germania di manodopera dall’estero, in considerazione del basso tasso di natalità che si registra nel Paese. Peccato, però, che il desiderio inconfessabile sia quello di avere a disposizione — magari a costi calmierati dall’intervento statale — manodopera qualificata, un profilo non riscontrabile in maniera significativa nei circa 1,2 milioni di rifugiati che nel biennio 2015/16 si riversano all’interno dei confini».

A fronte della narrazione ufficiale e “accogliente” del governo e dei media si fece presto strada nella società civile una percezione, un sentimento opposto. La massa di stranieri non europei, molto problematici e difficilmente integrabili,  spaventò l’opinione pubblica e svuotò le casse statali, incrinando i consolidati equilibri dello Stato sociale germanico. La reazione non si fece attendere, a Dresda e poi nelle altre città iniziarono le marce anti migranti di Pegida, fiorirono ovunque proteste sempre più dure e AfD cambiò volto assumendo un profilo più marcatamente nazional-conservatore con tinte che Clemente Ultimo non esita (a ragione) a definire “populiste”. Un riposizionamento voluto e imposto dalla Flugel (l’Ala), la corrente che si richiama all’esperienza della Neue Rechte, agli autori della Rivoluzione conservatrice e all’esperienza dei circoli militari anti nazisti di von Stauffenberg, autore del fallito attentato contro Hitler nel luglio ’44.

Emarginati o allontanati i “professori” filo-liberali, la “nuova” AfD guidata da Alexander Gauland e Alice Weidel ha continuato a crescere vigorosamente in tutto il Paese, impiantandosi anche nei “tranquilli” land occidentali, a spese della CDU-CSU ma anche delle forze di sinistra, in primis della SPD ormai ai minimi storici.  Da qui la centralità, evidente e ineludibile, di Alternative sulla scena politica tedesca. Ma, come ricorda Ultimo, il vero successo è la proiezione di temi sino ad oggi giudicati “tabù” nell’opinione pubblica notoriamente conformista: identità tedesca, nazionalismo, democrazia diretta, ridiscussione del legame con gli Stati Uniti, politiche migratorie, Stato sociale, interesse verso la Russia putiniana. Una somma di fattori che hanno portato alle elezioni europee dello scorso 26 maggio il partito all’11 per cento, con undici euro deputati. Poi le elezioni in Turingia e il sorpasso storico sul partito di maggioranza. Trent’anni dopo la caduta del Muro Afd è il quarto partito di una Germania finalmente unita e molto scontenta. E una nuova partita, tutta da giocare, si è aperta.