Piaccia o meno, la liberazione di Silvia Romano ha evidenziato una volta di più il ruolo della Turchia in un’area che, a torto o ragione, per decenni abbiamo considerato un’appendice periferica del nostro “cortile di casa”. La Somalia.

Andiamo per ordine. Per riportare a casa la giovane cooperante milanese — un’altra vittima, come Giulio Regeni, di imbarazzanti superficialità o/e loschi intrighi — i nostri servizi hanno dovuto trattare e mediare con i terminali di Recep Tayyip Erdogan, il padre padrone della Turchia, e i suoi alleati qatarioti. Un gioco pericoloso e molto costoso. Non solo in termini economici immediati — per salvare la Romano il riscatto, comprese le spese, è cospicua ma non strabiliante — ma soprattutto in una prospettiva geopolitica, quella lunga partita che si estende dall’Oceano Indiano sino al Mediterraneo centrale. Nel Canale di Sicilia. Alle porte di casa nostra.

Torniamo alla Somalia, l’antica colonia persa nel 1941, ripresa, sotto l’egida dell’Onu, in amministrazione fiduciaria sino al 1960 e poi, per un ulteriore trentennio, il prolungamento della nostra contradditoria politica africana. Un pozzo di San Patrizio (per alcuni) e un disastro politico.  Negli anni Novanta, con il disgregarsi delle istituzioni locali e l’accendersi della guerra civile, seguita dal fallimentare intervento internazionale supportato malamente dall’ Italia (ricordate la missione Ibis e i morti di Mogadiscio?), i vari governi (tutti i governi) si dimenticarono della Somalia, delle nostre responsabilità e dei nostri interessi nel Corno d’Africa. Ma non è questa la sede per ripercorre le tappe dell’interminabile mattanza somala e nemmeno per evidenziare — ma prima o poi ci torneremo…— le tremende stupidaggini commesse. Il dato su cui oggi riflettere è la Turchia, presenza dominante e invasiva anche in ciò che resta di questo sventurato brandello della defunta Africa Orientale Italiana e non solo.

Da tempo Ankara si è impiantata nel Paese stipulando un accordo per l’apertura di una base militare con la promessa di una mediazione per la riunificazione con il Somaliland (l’ex Somalia britannica, de facto indipendente e ricca di petrolio) e la “normalizzazione” del Puntland, una regione sotto controllo saudita. Interessi e obiettivi che rientrano nella grande partita geo strategica che Erdogan sta giocando, con molta spregiudicatezza, su più fronti.

In Africa, dal 2014 la Turchia ha più che triplicato le ambasciate (da 12 a 41) e ha aperto 22 uffici dell’Agenzia di sviluppo e cooperazione, investendo cifre sempre più consistenti (dai 100 milioni di dollari del 2002 ai 6,2 miliardi di oggi). Uno sforzo importante che mira a contenere l’influenza dell’Arabia Saudita e degli Emirati Arabi nel continente e specialmente nell’Africa Orientale e sul Mar Rosso dove Ankara si è impegnata a ricostruire (con i soldi del Qatar) il porto sudanese di Suakin in cambio dell’installazione — con un contratto di 99 anni — di un’ennesima base militare.

Intanto nel Mediterraneo Orientale Erdogan, sfidando la Grecia, procede speditamente verso l’annessione di Cipro Nord. A partire dal fallito golpe del 2016 la Turchia è tornata prepotentemente sull’isola, rafforzando il contingente militare (20mila uomini), riposizionando nuovamente velivoli militari e pattugliando le acque circostanti per proteggere le proprie trivellazioni e impedire quelle degli stranieri. Ovviamente il sultano si guarda bene di bloccare le installazioni della Total francese (Parigi è dichiaratamente filo-ellenica) ma, nel febbraio 2018, non ha avuto nessun problema a scacciare dal mare cipriota la nostra Saipem 1200.

Sempre nel Levante resta aperto il problema con la Siria, un azzardo molto rischioso per la presenza della Russia, nemico storico ma anche interlocutore strategico. Ai moscoviti Ankara ha proposto una stabilizzazione del Paese sulla pelle dei curdi e degli iraniani e a spese dei greci. Come scrive su Limes Daniele Santoro: «Se i russi decidono di radicarsi in Siria, è inevitabile un accordo strutturale sulla gestione dello spazio siriano. I due paesi hanno un interesse comune a recidere il corridoio iraniano verso il Mediterraneo… tale scenario salda i quadranti cipriota e siriano, stante la sovrapponibilità delle zone d’influenza marittima e i corposi interessi russi sull’isola. Se per stabilizzare la Siria Putin ha bisogno di Erdogan, per annettere Cipro Erdogan ha bisogno di Putin».

Ancor più inquietante il teatro libico. Da gennaio la Turchia ha intensificato l’appoggio militare a Sarraj inviando a Tripoli e Misurata decine di “consiglieri militari”, circa diecimila mercenari siriani e, soprattutto, droni e carri armati. Una forza efficace che ha costretto la scalcagnata armata di Haftar e i mercenari russi della Wagner ad indietreggiare e poi, dopo la caduta il 18 maggio della base di al-Watiya, a ritirarsi verso le loro basi in Cirenaica.  Si delinea così l’ipotesi di una frantumazione definitiva della Libia — ricordiamo, un’entità inventata dall’Italia nel 1934 —   tra Tripolitania, Cirenaica e Fezzan (vero buco nero della regione sahariana). L’idea che potrebbe non dispiacere anche agli esasperati sponsor di Haftar, ovvero Russia, Francia, Egitto ed Emirati: una pace provvisoria in cambio di contropartite in campo energetico e (per il Cairo) garanzie sulle frontiere.

Una vittoria in Libia, seppur parziale, garantirebbe alla Turchia, come l’impero Ottomano sino al 1911, un’ulteriore posizione strategica nel Mediterraneo. Negli accordi presi a Tripoli è infatti prevista la concessione ad Ankara di due basi militari (Misurata e al-Watiya), la ricostruzione economica della Tripolitania. Ma non solo. Sarraj si è dichiarato ben lieto d’affidare ai suoi protettori il controllo dei flussi migratori: una potente carta, da sommare ai 3,6 milioni di profughi bloccati in Anatolia, per ricattare l’intera Europa.

In questo scenario, come negli altri, l’Italia dal 2010 è sempre perdente. Incapace d’ogni decisione e privo d’ogni visione, il lunare Di Maio è ormai solo una comparsa in una partita diretta da altri. Del resto chi non è disposto a difendere i propri interessi con ogni mezzo (armi comprese) si riduce a non aver più interessi da difendere. Riprendendo Santoro, la diagnosi è amara, amarissima: «Nel Mediterraneo o si è attore o si è posta in gioco. Tertium non datur. L’Italia non può essere attore. Perché non lo vuole. Glielo impediscono la cifra ideologica che permea gli umori dell’opinione pubblica, l’inconsapevolezza della classe dirigente, l’idiosincrasia dei media per l’interesse nazionale. A suo modo, sarà comunque protagonista del grande gioco mediterraneo. Perché infine ne diventerà la preda più ambita».

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