Nella narrazione corrente il 1960 è ricordato, un po’ superficialmente, come l’anno delle indipendenze africane. Nell’arco di pochi mesi — dal primo gennaio al 28 novembre — la Francia gaullista liquidava gran parte del suo impero.  Per il canuto generale, ansioso di chiudere la sanguinosa e costosissima partita algerina, i possedimenti africani erano ormai un peso politico ed economico insopportabile. Meglio andarsene alla svelta per poi, come sarà con la rete economica della “France-Afrique” e il franco CFA, tornare in altre forme. Più felpate e micidiali e decisamente più convenienti

Tra le rare voci critiche, vi fu quella del dottor Albert Schweitzer, premio Nobel per la Pace nel 1952. Dal suo ospedale di Lambarènè, un buco infame e malsano e, al tempo stesso, la località più luminosa dell’allora Africa Equatoriale Francese, spedì un messaggio al presidente di Francia. L’anziano missionario alsaziano, — baffi curati, casco bianco, piccolo papillon nero e pantaloni stinti e rammendati —, l’uomo che aveva consumato l’intera sua vita a curare gli ultimi tra gli ultimi dell’Africa profonda, scriveva al potente generale una missiva per scongiurare (o almeno ritardare) l’annunciata ritirata della Francia dal “cuore di tenebra”. Dalla profondità del continente. Un messaggio contro l’improvvisa e improvvida decolonizzazione di terre inquiete.

Il latore era Alain Peyrefitte, il più giovane e brillante collaboratore di De Gaulle, uno dei pochi confidenti del ruvido Charles. Come ricorda nel suo C’etait De Gaulle — un libro centrale se si vuol comprendere l’esperienza gaullista —, Peyrefitte lesse il messaggio de le grand docteur all’inquilino dell’Eliseo. Le parole erano cortesi e inequivocabili — Schweitzer se lo poteva permettere… —: «l’esperienza di questi lunghi anni passati in Africa mi ha aperto gli occhi. So bene che i politici indigeni e i francesi di Libreville [la capitale dell’amministrazione gallica in Equatore, ndr] mi accuseranno d’essere paternalista, colonialista e razzista, ma la Francia non può andarsene oggi. Adesso. Poiché i negri vivono ancora l’età della pietra, ad eccezione dell’uno e due per cento di essi, e sarebbe insensato trattarli come europei dei giorni nostri».

De Gaulle annuì. «Schweitzer ha ragione e torto. È vero che gli indigeni non sono in grado per governarsi veramente da se stessi. Ma ciò che egli dimentica, è che attorno a noi esiste il mondo, e che esso è cambiato». Per poi aggiungere: «I popoli colonizzati sopportano sempre meno i loro colonizzatori; un giorno verrà in cui non riusciranno a più a sopportare se stessi. Nell’attesa, noi siamo obbligati a tener conto della realtà». Profetico.

Così, nel tripudio dei più e lo scetticismo di pochi, il colonialismo gallico evaporava e al suo posto sorgevano quattordici nuove nazioni: Mauritania, Mali, Repubblica Centroafricana, Niger, Chad, Burkina Faso, Senegal, Costa d’Avorio, Benin, Togo, Camerun, Gabon, Congo Brazzaville, Madagascar. Nello stesso anno fatidico il Belgio abbandonava malamente il Congo e l’Italia cessava la sua amministrazione fiduciaria in Somalia.

Gli inglesi — umiliati a Suez nel ’56 e ormai stufi di guerre coloniali — seguirono a ruota. L’Africa era ormai un cattivo affare: i possedimenti rappresentavano solo il 7,9% dell’import e il 10,8 dell’export mentre il Colonial Development Fund elargì, tra il 1946 e il 1958, oltre 121 milioni di sterline a fondo perduto.  Troppo per i pragmatici sudditi di Sua Maestà.  Nel 1961 gli albionici si ritirarono dalla Tanzania, nel ’62 dall’Uganda, nel ’63 dal Kenya, nel ’64 dallo Zambia e dal Malawi e nel 1966 dal Botswana.  Con gran scorno di Londra, il Sud Africa con Namibia e Rhodesia, controllati da rocciose minoranze europee, imboccarono altre perigliose strade.

Alla fine del decennio dell’Africa disegnata nel 1885 alla Conferenza di Berlino era praticamente svanita. Rimase solo il piccolo, cocciuto Portogallo salazarista che, nel segno del lusotropicalismo, la singolare teoria assimilazionista del sociologo brasiliano Gilberto Freye, cercò di difendere le sue posizioni in Angola, Mozambico, Cabinda, Guinea Bissau, Capo Verde. Una corsa solitaria, estenuante e vana, spezzata nel 1974 a Lisbona da un golpe militare travestito da “rivoluzione dei garofani” e conclusasi l’anno dopo con una mesta ritirata dal Continente.

Il colonialismo europeo — un’esperienza di scarsi ottant’anni — era defunto ma sin da subito il suo cadavere divenne l’alibi preferito per tanti, troppi cleptocrati africani, l’immancabile tormentone auto accusatorio di ogni occidentale che odia l’Occidente e per tutti (o quasi) il paradigma d’ogni nefandezza reazionaria.

 

Le colonie? Un‘idea di sinistra

 

Eppure il colonialismo, principalmente nella sua versione francese, nasce giacobino e progressista. All’indomani della sconfitta di Sedan e del crollo dell’impero bonapartista, i capi della sinistra Jules Ferry e Léon Gambetta imposero alla Terza repubblica una rapida espansione in Asia e in Africa. Alle proteste delle destre monarchiche o bonapartiste — ben più preoccupate della sempre minacciosa Germania bismarkiana — Victor Hugo, l’aedo del pensiero coloniale repubblicano, rispondeva il 18 maggio 1879 con alate parole:

«Nel XIX secolo, il bianco ha fatto del nero un uomo, nel XX secolo l’Europa darà dell’Africa un mondo. Rifare un’Africa nuova, rendere la vecchia Africa aperta alla Civiltà. Ecco il problema. L’Europa lo risolverà. Andate popoli! Impadronitevi di queste terre. Prendetele! Prendete queste terre per Dio. Dio dona la terra agli uomini. Dio dona l’Africa all’Europa. Andate! Costruite strade, porti, città. Arate, coltivate, colonizzate, moltiplicatevi su questa terra, sbarazzatevi dei preti e dei principi! Lo spirito divino s’afferma con la pace, lo spirito umano con la libertà».

Assieme all’autore de “I Miserabili” tuonarono anche gli altri cacicchi della Repubblica. Jean Jaures, il padre nobile del sinistrismo gallico, proclamò che la colonizzazione era il vettore degli ideali del 1789: «quando conquistiamo un Paese, dobbiamo irradiarlo della gloria di Francia, poiché essa è pura e grande, impregnata di giustizia e bontà». Risultato: il 10 marzo 1883 il parlamento francese dava la fiducia a Ferry e approvava il budget per la conquista dell’Indocina, del Congo e del Madagascar. La marcia era iniziata.

La sinistra transalpina resterà lungamente su posizione iper colonialiste elaborando persino una sorta di “razzismo filantropico”. Nel 1925 Léon Blum affermò tranquillamente: «noi ammettiamo il diritto e persino il dovere delle razze superiori a dirigere quelle che non sono ancore pervenute allo stesso grado di cultura per introdurle ai progressi realizzati grazie agli sforzi della scienza e dell’industria». Albert Bayet, presidente della Lega dei diritti dell’uomo e grande massone, nel 1931 si disse convinto della piena legittimità del colonialismo poiché portatore del «messaggio dei grandi antenati del 1789. Far conoscere ai popoli i diritti, non è imperialismo ma un segno di fraternità». Insomma, la repubblica coloniale era buona, generosa, altruista e il suo obiettivo era il benessere dei popoli colonizzati. Un modello diverso e superiore da ogni altra esperienza imperiale.

Solo dopo la crisi anglo-francese di Fachoda del 1898 — che opporrà nel Sudan la spedizione del capitano Marchand alle truppe di Lord Kitchener — le destre, storicamente anglofobiche, aderiranno al sogno coloniale ma — come stigmatizzerà più volte Charles Maurras, il grande pensatore dell’Action Française —, senza mai elaborare una dottrina originale e restando prigioniere d’una astratta quanto emotiva idea di grandezza patriottica e militare.

Tutto cambiò nel secondo dopoguerra. Dopo i disastri d’Indocina e Algeria gli eredi di Ferry e Blùm cambiarono rapidamente opinione su colonie e impero, scordando pure il pieno sostegno dei governi di sinistra — tra tutti il primo ministro Guy Mollet e il giovane ministro Mitterand (entrambi socialisti) — alle misure belliche e poliziesche contro gli indipendentisti asiatici e africani. I destristi, assieme ai militari, finirono sepolti nel fango di Dien Bien Phu, sotto le macerie di Bab El Oued. Assieme alle loro nostalgie.

 

Il Congo e altre storie

 

Lo scorso 30 giugno, nell’anniversario della fine della presenza belga in Congo, monsignor Fridolin Ambongo Besungu, arcivescovo di Kinshasa non ha avuto peli sulla lingua e ha tracciato un amarissimo bilancio del fatidico sessantenario:

«Contrariamente ai paesi vicini, l’indipendenza è stata una indipendenza più sognata che ponderata: mentre altri riflettevano sul significato dell’indipendenza e preparavano le persone alle sue conseguenze; noi, in Congo, sognavamo l’indipendenza con emozione, passione, irrazionalità, tanto che quando il momento è giunto non sapevamo che cosa sarebbe accaduto. Le conseguenze si vedono ancora oggi. Per i congolesi dell’epoca sognare l’indipendenza significava sognare di occupare i posti dei bianchi, sedersi sugli scranni dei bianchi, godere dei vantaggi riservati ai bianchi e non agli indigeni dell’epoca. Per molti l’indipendenza era vista come la fine di tutti i lavori pesanti. Quando saremo indipendenti diventeremo tutti capi. Occuperemo i posti dei bianchi. Tutto ciò si è verificato: i congolesi hanno occupato i posti dei bianchi. Ma dato che non capivano niente di quello che facevano i bianchi, dato che non capivano l’esercizio dell’autorità o l’esercizio delle cariche, qualunque compito politico o incarico è stato visto come l’occasione di godere dei vantaggi dei bianchi. Si cercava di accedere al potere non per rendere servizio a coloro che si trovano sotto la propria responsabilità ma per avere i privilegi dei bianchi. Ma questi, mentre erano seduti sulle loro sedie, non se la spassavano e basta. Lavoravano anche. Comprendevano il senso del loro lavoro. Noi invece abbiamo messo da parte l’idea del servizio da rendere agli altri e abbiamo posto l’accento sul piacere». 

Parole durissime che dovrebbero far riflettere anche i critici più ostinati.  Il Congo è ancor oggi considerato il peggior esperimento coloniale, ma si dimentica che l’Etat Indipéndent du Congo, la creatura privata del rapace Leopoldo II del Belgio durò meno di un ventennio. Nel 1909, Bruxelles subentrò all’amministrazione leopoldina segnando una netta discontinuità. Con la Charte coloniale il regime di lavoro forzato fu abolito e autorizzato il libero commercio.

Nel primo dopoguerra i colonizzatori impostarono un gigantesco piano infrastrutturale che prevedeva la realizzazione di ferrovie, porti, strade, città: uno sforzo titanico, prodromico alla valorizzazione e lo sfruttamento delle enormi risorse. In sintesi, il progetto di une colonie modèle prese forma e sostanza. L’impetuosa crescita economica— in meno di un decennio il Congo divenne uno dei principali produttori mondiali di stagno, rame, carbone, ferro, cobalto, diamanti, uranio — arricchì la lontana madrepatria e, di riflesso, permise un miglioramento delle condizioni di vita degli indigeni. Nel segno del paternalismo e della stabilizzazione, il governo impose alle società minerarie le prime misure di protezione sociale per gli operai neri e sviluppò, in sinergia con le missioni cattoliche, un piano sanitario e educativo limitato, però, alle scuole elementari poiché il governo coloniale — fedele al motto “pas d’èlites, pas d’ennuis” — ritenne prematuro (e pericoloso) offrire agli africani livelli d’istruzione elevati. Un calcolo miope che, al momento dell’indipendenza, avrà conseguenze disastrose.

L’uscita dei belgi — affrettata e ingloriosa — fu seguita da una serie di sanguinose guerre civili, poi dalla trentennale dittatura cleptocratica di Joseph-Désiré Mobutu a cui seguirono l’opaco regime della famiglia Kabila e la presidenza di Félix Tshisekedi, eletto più o meno pacificamente nel 2019. Ma l’attuale uomo forte di Kinshasa ha poco da celebrare e nulla di cui sorridere. Dopo la fresca condanna ai lavori forzati di Vital Kamerhe, il braccio destro del presidente reo d’aver intascato 50 milioni di dollari destinati all’edilizia popolare, il governo oggi naviga a vista, l’esercito resta inquieto e le proteste montano in tutto il Paese. Sullo sfondo una miseria dilagante: malgrado le sue enormi ricchezze minerarie che ogni anno rendono allo Stato 15 miliardi di dollari, il Congo — questo formidabile “scandalo geologico” — rimane uno dei dieci paesi più poveri del pianeta.

Il caso del Congo è emblematico. A fronte di un Africa che cresce — l’Etiopia ha una crescita del 5,8 per cento ed è seguita da Kenya, Tanzania, Rwanda e Uganda con stime tra il 7 e il 5 per cento — vi è un’Africa fallita e disperata. Un pezzo di mondo che da 60 anni in affoga in guerre tribali e transnazionali, terribili e dimenticate — qualche esempio il Katanga e il Biafra negli anni Sessanta, l’Ogaden nei Settanta, il Sudan, la Somalia e i Grandi laghi nei Novanta, il Centroafrica, il Camerun, il Sahel nel terzo millennio — e che non riesce a trovare pace e stabilità.

Tutta colpa della colonizzazione, degli europei? I primi a dubitarne sono proprio i leader africani più illuminati, tra tutti Paul Kagame l’uomo che ha pacificato e rilanciato il Rwanda e che oggi guida l’Unione Africana. Nel suo discorso di insediamento ha ricordato ai capi di Stato presenti che da sessant’anni in Africa governano gli africani e che l’alibi del colonialismo non è più credibile né accettabile. Ha perfettamente ragione.

Lo sostiene anche Alfredo Mantica, uno dei rarissimi politici italiani realmente addentro alle “cose africane”. L’ex sottosegretario agli Esteri nei governi Berlusconi non ha dubbi:

«Il problema è nostro. Viviamo in un tempo in cui l’Europa nella sua anima laica e socialista ha assunto su di sé le colpe di una civiltà che ha creato il mondo moderno. Ci siamo dichiarati colpevoli di tutto ciò che è accaduto dagli aborigeni australiani agli indigeni dell’Amazzonia, dal “terrorismo” dei Crociati alla vergogna per avere vinto a Lepanto contro i poveri musulmani. Il colonialismo non poteva sfuggire alle colpe europee come fra un po’ dovremo vergognarci dell’impero di Roma. In questo contesto tentare di affrontare il colonialismo in termini storici e razionali è praticamente impossibile. Come spesso accade quando si vuole “nascondere” la storia negando che sia un continuo approfondimento e quindi una continua revisione (siamo in un mondo in cui la verità storica è stabilità dalla legge e in Francia proprio relativamente all’epoca coloniale), il tema ha senso solo a livello politico. Gli europei devono smetterla di insegnare libertà, democrazia, regole economiche (il neocolonialismo moralista e ipocrita). Con l’Africa si tratta alla pari come partner di un progetto di sviluppo che interessa allo stesso livello le due parti. Non c’è bisogno di pentimenti o di revanscismi. Gli africani non lo chiedono e gli europei siano leali: nella trasparenza dei rapporti non si potranno mai nascondere gli interessi delle grandi finanziarie».

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