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Il 2 marzo 1953 Stalin, colpito da un ictus, muore nella sua dacia. È la fine di un lungo incubo ma anche l’inizio di una serie di congiure sconbinate ed intrighi surreali tra i notabili del potere sovietico, i “principi rossi”. Gli uomini di Stalin, il “compagno supremo”, il “sole ingannatore”. La successione si trasformò così in una tragicommedia dagli effetti paradossali.

Una vicenda tragica quanto grottesca ricostruita ora in “Morto Stalin, se ne fa un altro”, splendido film scritto e diretto dal regista italo-americano Armando Iannucci, un genio della satira politica (si veda “The Thick of It”, “Veep”, “In The Loop”). La pellicola, in uscita nelle sale italiane il prossimo 4 gennaio, non fa sconti a nessuno perchè nessuno è buono. Anzi, tutti sono dei cialtroni, dei sanguinari, degli opportunisti. Il peggiore è Beria (interpretato da un grande Simon Russell Beale) che subito ruba i dossier segreti del “padrone” per ricattare i suoi compagni-avversari: il piagnone Malenkov, il carrierista Krusciov, il vile Molotov e compagnia cantante. Tutti hanno molto da far dimenticare e poco di cui vantarsi. Tutti erano complici zelanti del tiranno defunto. Tutti si odiano. Tutti hanno le mani insanguinate. Tutti hanno paura. Tutti ambiscono al potere.
Iannuci racconta le trame di questa folla di delinquenti dipingendo con raffinata ironia la “zattera della medusa” bolscevica, un rottame su cui regna il terrore, la paranoia, il ricatto, la delazione, la strategia, l’inganno.

A guardarli bene questi super comunisti che pretendevano di lavorare per la felicità dell’umanità erano incredibilmente infelici. Ipocondriaci miserabili e paurosi che deportarono nei gulag anche i medici che avrebbero potuto salvarli. Gente da nulla, farabutti a cui per primo Togliatti — il “migliore”, ancor’oggi rimpianto dai sinistrosi nostrani — baciava riverente la pantofola. Andate al cinema, ne vale la pena…

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