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Per un secondo, un attimo, spegnete il televisore, chiudete il cellulare. E rifletttete. In qualche parte del pianeta — tra i monti dell’Afghanistan o tra le trincee del Kurdistan, nei deserti africani o in altri luoghi, tutti decisamente poco ospitali e per nulla accoglienti — vi sono soldati italiani che operano, combattono, uccidono e, quando la sfiga arriva, crepano. In silenzio. Senza rompere le scatole. È il loro dovere. È una loro scelta. Punto.

Sono i “fantasmi”, gli “invisibili”. Mentre leggete queste righe, un manipolo di uomini è in missione. Ovunque. Di loro poco o nulla sappiamo. Meglio. La riservatezza è una condizione essenziale per il loro mestiere.

Sono i “nostri”. Le forze speciali. Una piccola élite guerriera che questo Paese scassato e ingrato, ignora. Eppure, come il generale Marco Bertolini insegna, se l’Italia ancora qualcosa conta nel “grande gioco” internazionale, lo deve anche a questi professionisti della guerra.

Già, la guerra. Brutta roba, cosa tremenda ma, purtroppo, ineludibile. Vi è sempre chi invade e chi difende. Vi è sempre chi combatte e chi muore. Per una causa, per un’ambizione, per la gloria. Per una Patria. È il compito dei soldati.

Omero lo aveva compreso secoli fa. Nell’Iliade — le radici della nostra Civiltà — vi è tutto. Achille è un rompiscatole privilegiato — tallone permettendo è sempre un semi-dio — ma poi, sotto le mura di Troia, sono gli uomini — Ettore e Patroclo, Ulisse e Agamennone — a giocarsi il destino, a combattere. A morire. Con i loro pensieri e le loro paure.

È l’eterno soldato. Da Salamina all’Afghanistan. Sul terreno non esistono “super eroi” ma vi è solo e sempre l’uomo. Il soldato che marcia con trenta chili di materiale sulle spalle sino al’obiettivo e attende il momento fatale. Lo scontro. I lampi, le grida, i morti. Pochi minuti, forse attimi, poi, sul terreno i corpi dei nemici e dei camerati. Sangue. Tanto sangue. Storie crudeli che quest’Italia non vuole conoscere, non vuole sentire. Meglio le cazzate della televisione sulle “missioni pace”.

Per fortuna, uno scrittore autentico come Giampiero Cannella — uomo elegante, intellettuale raffinato e, cosa insolita nel panorama editoriale, profondo esperto di cose militari e orientali— ha raccontato la vicenda dei “nostri” in Afghanistan e in Iraq. Cose che pochi sapevano.

È “Task force 45, scacco al Califfo” (Luca Poggiali editore, pagine 160, euro 15), un libro formidabile in cui s’intrecciano tante storie, apparentemente distanti tra loro ma tutte, fatalmente, incastonate nel “great game” medio orientale. Un inferno, anche italiano.

Con scrittura sicura, Cannella narra le fatiche, gli sforzi della piccola compagine chiamata Task Force 45. Duecento uomini. Gente seria e responsabile, persone coriacee e strutturate. Sono gli incursori del IX° Col Moschin, gli specialisti del Comsubin, i carabinieri del Gis, gli arditi del 17° stormo dell’Aeronautica. Accanto a loro, i ranger del IV° Alpini paracadutisti e gli acquisitori obiettivi del 185° Folgore e, a lato, gli 007 dell’Aise. Un mondo castrense, fiero e valoroso. Come nell’Enrico di Shakespeare «We few, we happy few, we band of brothers».

Il romanzo racconta una missione difficile, durissima, ma è anche (e soprattutto) l’occasione per tratteggiare caratteri, atteggiamenti, problematiche. Storie vere di gente vera. Cannella non ha inventato nulla. Ha dipinto un quadro in cui solo nomi sono di fantasia ma gli intrecci, le vicende, i personaggi sono autentici o molto verosimili. Cannella è onesto. Non troverete “Rambo” ma, pagina dopo pagina, tanti perchè. Per esempio, cosa motiva un ragazzo italiano a scegliere la strada più difficile. I Corpi speciali. Per poi ritrovarsi tra Herat e Kandahar – onestamente posti di merda — a preparare una “killing zone”, un’imboscata o a trattare con presunto informatore o con un alleato infido. Con il rischio d’essere accoppato sul posto. Al tempo stesso l’autore, da sempre innamorato dell’Oriente, ha voluto penetrare nei meccanismi mentali dell’”altro”, indagando sulle ragioni profonde di una “guerra santa” implacabile e apparentemente incomprensibile. Uno sforzo intelligente che offre un ulteriore quanto intrigante piano di lettura.

“Task force 45” è un lavoro atipico e valido, impreziosito, non a caso, dall’introduzione di Gian Micalessin, uno dei migliori reporter di guerra italiani. Gian, persona molto parca nei giudizi, ha definito il romanzo di Cannella all’altezza dei libri di Tom Clancy. Un apprezzamento non da poco (anzi) che condividiamo pienamente. Buona lettura.

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