L’Italia prostrata dall’eurocrisi è un Paese che non è quasi più in grado di difendersi dalla forza dei grandi investitori internazionali. Rischia così di perdere il proprio patrimonio di aziende, imprese, cultura e conoscenze perché mancano le risorse per tutelarlo al meglio. In un mondo globalizzato l’internazionalizzazione e la presenza di investimenti esteri sono un vantaggio competitivo, ma l’«euro-trappola» e l’austerità pretesa dalla Germania di Angela Merkel potrebbero aumentare disparità oggi appena evidenti: i pezzi migliori del nostro Paese potrebbero essere svenduti, mentre l’impresa-Italia potrebbe non essere in grado di crescere e svilupparsi con analoga forza all’estero con il risultato di un effetto-colonizzazione.

L’acquisizione del 40% del cantiere di Porta Vittoria a Milano da parte degli emiri del Qatar è solo l’ultimo anello di una catena che di recente ha visto passare in mani estere aziende come Richard Ginori, Pomellato e, tornando indietro di un paio d’anni, anche Parmalat. Sottoponiamo il problema a Marianna Vintiadis, numero uno del colosso delle investigazioni Kroll. Una sorta di super-ispettore cui si è di recente rivolta anche la Banca Popolare di Milano di Andrea Bonomi per contrastare la continuativa divulgazione non autorizzata dei progetti di rilancio dell’istituto di credito.

 

 

 

 

 

 

 

Gli investitori stranieri su quali settori della “corporate Italia” stanno concentrando le attenzioni?

«Anche se siamo ancora lontani dai livelli di attività precrisi, notiamo comunque un vivo interesse per alcuni settori, tra cui l’energia, le rinnovabili e l’informatica. Noto, però, che anche qui in generale si tratta di acquisizioni e non di investimenti greenfield».

Ci sono Paesi o aree del mondo con industrie o fondi che oggi sono particolarmente attenti all’Italia, in vista di un futuro ingresso?

«Non ho questa impressione. La gran parte degli investimenti continuano ad arrivare in primis dall’Europa e poi dagli Stati Uniti – i flussi asiatici rimangono ancora molto moderati».

Dopo il caso Richard Ginori e di Pomellato, quali sono i comparti del made in Italy che per propria debolezza strutturale o per reale attrattività industriale potrebbero diventare preda dell’avanzata straniera?

«Ci sono grandi marchi italiani che si trovano in difficoltà per problemi di sottocapitalizzazione o a causa di passaggi generazionali. Queste imprese possono essere oggetto di attenzione da parte degli investitori esteri, come lo sono anche alcune perle tecnologiche che faticano a farsi strada a livello internazionale a causa della loro dimensione limitata».

Pensa che anche il settore delle telecomunicazioni, messo a dura prova dalla crisi economica, sarà oggetto di takeover ostili?

«Non ne sono certa».

Le multinazionali come giudicano in genere l’articolo 18 e la Riforma Fornero?

«Ho l’impressione che la sua importanza sia stata enormemente sopravvalutata nel dibattito politico. La percezione del mercato del lavoro italiano rimane quella di un mercato rigido e che offre poco spazio alla mobilità sociale».

Che cosa conta di più per l’investitore estero? Le infrastrutture oppure la flessibilità nel mercato del lavoro?

«Senza dubbio le infrastrutture. Il mercato del lavoro italiano può non essere ideale ma non ha impedito alle imprese straniere di entrare nel nostro Paese in passato. Vorrei anche aggiungere che recentemente altri fattori, come la corruzione, preoccupano fortemente gli investitori esteri».

Pesa maggiormente la stabilità politica oppure la mancanza di manodopera specializzata o di specifiche conoscenze tecnologiche?

«Anche qui, i fattori sono molteplici, ma porrei l’arretratezza tecnologica, la mancanza di una vera classe dirigente e la mancata conoscenza delle lingue tra i fattori di primaria importanza. Come si fa a competere nel mondo della tecnologia se non si parla neanche l’inglese?».

Quali altri ostacoli si frappongono?  Di quanto potrebbe crescere l’impegno degli stranieri se la situazione complessiva migliorasse?

«La burocrazia, la lunghezza dei processi e la mancanza di trasparenza sono fattori di primaria importanza nelle decisioni di investire nel nostro Paese».

Il livello medio di preparazione universitaria e scolastica in Italia è sufficiente per un Paese che voglia attrarre investimenti esteri?

«Purtroppo la risposta è “assolutamente no”. Per quanto riguarda la preparazione scolastica, in primis porrei il problema delle lingue e della competenza tecnologica. A questo si aggiunge il problema di un ambiente universitario chiuso, poco competitivo internazionalmente – con alcune importanti eccezioni -, a l’assenza di una vera università di élite».

 Favorire l’arrivo di nuovi investitori significa, però, perdere il controllo delle “nostre” aziende: l’Italia è pronta a questo cambio di mentalità?

«Gli investitori possono anche comprare quote di minoranza o maggioranza senza procedere ad un acquisto del 100%. Sicuramente, in alcuni casi le imprese potrebbero essere acquisite in toto. Non vedo alcun problema, se non per le imprese che producono innovazione tecnologica: le multinazionali tendono a concentrare la tecnologia nel Paese in cui hanno sede. In questo modo rischiamo di perdere ancora altri cervelli invece che cercare di fermare questa emorragia che purtroppo va avanti da fin troppo tempo».

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