Quest’anno – stando a quanto s’è letto nei documenti ufficiali – molte grandi banche internazionali per la prima volta non hanno preso parte alla riunione del Club Bilderberg, che si è conclusa a Londra domenica scorsa.  Né Jp Morgan né Morgan Stanley né Credit Suisse né Citigroup né Ubs né Bank of America-Merrill Lynch hanno inviato i loro vertici al meeting nel quale vengono decisi i destini del mondo.

Eppure Jp Morgan un assaggio del clima Bilderberg l’aveva dato un paio di settimane fa, pubblicando un report su temi che in consessi così nobili vanno molto di moda. Il titolo è emblematico: «Il consolidamento dell’area euro: siamo quasi a metà strada». Il documento, infatti, ricorre alla metafora del viaggio per indicare a quale punto del cammino siano arrivati i Paesi in difficoltà di Eurolandia rispetto a quelli che sono gli obiettivi imposti loro da Bruxelles (ma sarebbe meglio dire da Angela Merkel).  Ça va sans dire, l’Italia è messa molto bene dal punto di vista dell’aggiustamento fiscale: le manovre draconiane di Mario Monti (ma noi questa storia ve l’abbiamo già raccontata) hanno portato il nostro Paese a una disciplina forzosa di bilancio che ha ricondotto il rapporto deficit/pil al di sotto del 3 per cento. Questo è evidente: i sacrifici li abbiamo pagati tutti quanti, i premi invece li assegna Jp Morgan (tra l’altro qualcuno che al Bilderberg ha lodato Mario Monti, che fa parte del club, ci sarà pure stato) .

Il vero problema è quello dell’attuazione delle riforme per la crescita. Nella classifica che Jp Morgan stila in base ai dati dell’Ocse su mercato del lavoro, produttività e regolamentazione dei mercati i fanalini di coda sono Spagna, Francia, Portogallo, Italia e Grecia. In estrema sintesi, i «fetecchioni», meno competitivi e meno attraenti per investire il proprio capitale, sono proprio i Paesi mediterranei.

Le cause di questo stallo Jp Morgan sembra averle ben chiare e stila così un programma di riforme costituzionali cui adeguarsi per uscire dal pantano. Le colpevoli del mancato riformismo sono le Costituzioni: questi Paesi sono usciti tramite la Seconda Guerra Mondiale (alcuni come Spagna, Portogallo e Grecia vi hanno convissuto pure nel dopoguerra) da regimi dittatoriali fascisti. Le loro leggi fondamentali sono quasi tutte di stampo socialista e hanno frenato ogni tipo di riforma. Basta pertanto eliminare questi cinque punti dalle nostre Costituzioni per procedere spediti:

  1. Governi deboli (rispetto ai Parlamenti; ndr)
  2. Stati centrali deboli rispetto alle Regioni
  3. Tutela costituzionale del diritto al lavoro
  4. Sistemi di creazione del consenso politico che favoriscono il clientelismo (partitocrazia; ndr)
  5. Diritto di protestare se le riforme modificano lo status quo

Come vedete questa non è un’analisi economica, ma un trattato di sociologia politica (o per meglio dire di diritto costituzionale) e, come tale, lo dobbiamo affrontare. Il modello di Jp Morgan è chiaramente la Costituzione degli Stati Uniti che fissa le libertà fondamentali dell’individuo e le forme della rappresentanza (Congresso e Presidenza): il lavoro non vi rientra giacché esso è una possibilità della condizione umana, non è un principio basilare come invece stabilisce il primo articolo della nostra Costituzione. Tant’è vero che a Washington il problema dell’occupazione è sostanzialmente demandato alla Federal Reserve che regola la propria politica monetaria in base alla possibilità di creare nuovi posti di lavoro nel settore privato con la liquidità messa in circolo. Non vi annoieremo con il funzionamento dei livelli di governo negli Usa che sono uno Stato federale. Diciamo solo che su tutte le questioni fondamentali il Presidente gioca da regista (salvo incidenti parlamentari) e gli Stati finiscono con l’adeguarsi in un modo o nell’altro (è una semplificazione, ricordatelo bene). Il clientelismo, praticamente, non esiste perché la politica ha uno scarso potere di intermediazione: fatti salvi gli organi costituzionali, le alte magistrature (i capi delle Procure sono invece elettivi) e le agenzie federali, il ruolo del settore pubblico è molto contenuto [anche se Obama non si è peritato di nazionalizzare banche e case automobilistiche nelle situazioni di emergenza].

L’Europa meridionale, ma anche buona parte di quella centrale, funziona all’opposto. Innanzitutto, perché – semplificando (badate bene) – lo Stato in Europa non nasce per tutelare le libertà individuali dal potere sovrano, ma fondamentalmente nasce come «scambio sociale»: ci può chiedere la vita per andare in guerra e, in cambio, ci offre una serie di benefit come le pensioni e soprattutto la possibilità/diritto di avere un lavoro per sostentarci nei periodi di pace. Lo Stato europeo, come quello Usa, ha assimilato i concetti fondamentali della Rivoluzione Francese e, tra essi, quello di eguaglianza, che fa sì che non possa essere perseguita l’opposizione a una prassi che il cittadino ritiene ingiusta o lesiva dei propri diritti acquisiti.

Ne conseguono delle domande fondamentali a cui ciascuno di noi deve dare una risposta secondo coscienza: si può rinunciare al diritto di veto del Parlamento e del parlamentare singolo per agevolare un percorso di riforme? Si può rinunciare alla tutela dell’espressione del proprio dissenso per conseguire una possibile crescita economica?

La risposta di Jp Morgan e del Club Bilderberg la potete immaginare. In fondo, il governo Monti ne è stato un esempio, con un Parlamento pressoché «sdraiato» sui diktat di Palazzo Chigi ancorché eterodiretti in nome del «ce lo chiede l’Europa». Anche se, incredibile dictu, la conseguenza di questo nuovo stato di cose dovrebbe essere positiva: riuscire a ottenere in nome di una convergenza politico-costituzionale un’azione più decisa della Bce nel sostenere la crescita oppure un’adesione della Germania a un’unione fiscale che con gli eurobond (condivisione del debito sovrano europeo) metta al riparo l’Eurozona dalla speculazione, favorendo lo sviluppo economico. Ne vale la pena? Ai posteri l’ardua sentenza.

Wall & Street

 

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