In alcuni casi l’espressione «piove sul bagnato», per quanto banale, rende perfettamente la tragicità di una situazione. È il caso di Saipem, la controllata dell’Eni che si occupa di processi ingegneristici (soprattutto perforazioni) per il settore Oil & Gas. La scorsa settimana è affondata una piattaforma alla foce del fiume Congo, un chiaro segnale che prima il 2013 terminerà tanto meglio sarà per la società guidata dall’ad Umberto Vergine.

D’altronde, è molto raro il caso di due allarmi utili lanciati a meno di sei mesi l’uno dall’altro. Eppure anche questo è accaduto a Saipem quest’anno. Prima l’indagine della Procura di Milano (di cui vi abbiamo dato conto in tempo reale) sui contratti con l’algerina Sonatrach. I magistrati hanno scandagliato commesse per 11 miliardi alla ricerca di presunte tangenti: l’ex amministratore delegato Pietro Franco Tali si è dimesso, il gruppo ha lanciato un profit warning (stimando un dimezzamento dell’utile operativo) e a fine gennaio in un sul giorno il titolo ha perso il 33% del suo valore. A metà giugno è andata in onda la replica: oltre ai ben noti problemi algerini si sono aggiunte criticità in Canada e Messico che fanno prevedere alla società una perdita di 300-350 milioni quest’anno.

Ora lasciamo perdere il fatto che la sola Sonatrach garantisca oltre un terzo del fabbisogno di gas italiano e concentriamoci sui numeri. Nove mesi fa Saipem in Borsa capitalizzava 17 miliardi, oggi supera di poco i 6 miliardi. Il 43% in mano a Eni vale perciò 2,6 miliardi, cioè meno dei circa 4 miliardi di debito che la stessa Saipem ha contratto verso la controllante. Inoltre, l’esito delle indagini della magistratura non può preoccupare più di tanto perché  fra Eni e Saipem c’è piena separazione funzionale e gestionale. Insomma, vendere quel 43% sarebbe solo una questione di cassa per concentrarsi ancor di più sull’esplorazione che è il vero core business della casa madre.

È chiaro che su queste basi ipotizzare una cessione di Saipem per Eni sarebbe quantomeno azzardato. Non solo perché sconveniente ma anche perché in meno di vent’anni questo «gioiellino» ha fruttato un rendimento cumulato tra dividendi e rivalutazione di Borsa di oltre il 600 per cento. E, infatti, per Scaroni tale capitolo non rappresenta una priorità.

Ci si può pensare ma senza fretta. anche perché i giudizi degli analisti su Saipem di recente sono stati molto impietosi (tra tagli dei giudizi e dei prezzi obiettivo), dunque quale investitore straniero spenderebbe per una società della quale non si ha per ora una chiara visibilità sulla capacità futura di produrre utili? A meno che non si tratti di fare un grosso affare (vedi il caso Finmeccanica) . Prendiamo, ad esempio, uno dei recenti giudizi della francese Exane su Eni (taglio dell rating da neutral a underperform e del target price da 19,5 a 18 euro). Il succo della questione è che senza operazioni straordinarie come uno spin-off o una cessione di qualche divisione, anche la valutazione delle attività esplorative e di produzione ne potrebbe risentire. Il messaggio è chiaro: «Vendete ciò che si può vendere e concentratevi sulla perforazione di pozzi petroliferi!». Tutto il mondo dell’Oil & Gas lavora con Saipem: basta un aumento di capitale per ridurre l’indebitamento e qualche concorrente come la francese Technip, la norvegese Subsea7 o qualche big americano o giapponese potrebbe approfittare dell’occasione permettere un piede dentro o per diventare azionista di maggioranza relativa nel gioiellino di casa Eni.

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