«Non è escluso che il Tesoro decida di cedere quote di società pubbliche, incluse Eni, EnelFinmeccanica,   per ridurre il debito». Il ministro dell’Economia, Fabrizio Saccomanni, in un’ intervista a Bloomberg Tv ha tirato fuori dal cilindro il solito vecchio coniglio: cedere i «gioielli»in mano al Tesoro per fare un po’ di cassa. Tutti i suoi predecessori ci hanno pensato (persino Giulio Tremonti che poi si è «convertito» sulla via di Damasco dell’interesse strategico nazionale).

Certo, Saccomanni ha spiegato che la modalità di cessione non è stata ancora decisa e che si potrebbe pensare anche  a soluzioni alternative. «Queste compagnie sono profittevoli e danno dividendi al Tesoro, così dobbiamo considerare anche la possibilità di usarle come collaterali per la riduzione del debito». Il «collaterale», per chi non lo sapesse è il bene a garanzia di un prestito. Dunque si potrebbero usare queste azioni mettendole al servizio di un prestito obbligazionario convertibile, una strategia che lascia sempre aperta la strada del rimborso senza che si sia costretti a vendere il collaterale. «Ci sono un po’ di idee che dobbiamo prendere in considerazione – ha aggiunto Saccomanni  e spero che prima della fine dell’anno possiamo avere chiara quale sia la nostra visione per una strategia che consenta l’accelerazione della riduzione del debito».

Wall & Street non sono dietrologi, però, non possono fare a meno di notare che proprio oggi un puntuto commento del Wall Street Journal ha sottolineato che «Eni dovrebbe essere meno italiana» e un buon modo sarebbe quello di cedere Saipem perché la sua «proprietà senza controllo perpetua  l’idea che la corporate governance» del gruppo «non è in  grado di graffiare». Il quotidiano finanziario di proprietà di Rupert Murdoch ha ricordato come Eni abbia mantenuto il rating «A» da parte di Standard & Poor’s nonostante il downgrading dell’Italia. Le prospettive economico-finanziarie del gruppo, inoltre, sono buone, anche se in Borsa Eni tratta a sconto rispetto alle major petrolifere statunitensi. «Eni – conclude il quotidiano – ha fondamentali sufficientemente solidi per colmare questo gap. Abbandonare Saipem sarebbe un buon inizio».

Posizioni che assomigliano molto a quelle che ogni anno durante l’assemblea di bilancio di Eni il fondo di investimento americano Knight Vinke (che detiene circa l’1% del capitale) espone all’attenzione dell’amministratore delegato Paolo Scaroni. Oltre alla richiesta di cedere il 42% di Saipem, l’organismo di gestione del risparmio ha chiesto di «risolvere il rapporto ambiguo che mantiene con lo Stato: Eni è un’azienda quotata in Borsa e non è più un’azienda statale, quindi sarebbe normale che smettesse di essere vista dal mercato e dall’opinione pubblica come azienda parastatale». Che, in parole povere, significa: «se lo Stato uscisse dal capitale, a parte il momentaneo deprezzamento dovuto all’offerta di azioni sul mercato, il valore del titolo potrebbe aumentare». E per Knight Vinke sarebbe un affare.

Sebbene (e lo ripetiamo) privatizzare sia sempre un’atto lodevole (anche se Eni non sarebbe diventato un colosso del petrolio senza lo Stato alle spalle e lo stesso vale per Enel e Finmeccanica nei loro rispettivi campi di azione), vale la pena di fare due conti. Il 30% di Eni (diviso fra Tesoro e Cdp) vale circa 18 miliardi, il 31,2% di Enel vale 7 miliardi, il 32,4% di Finmeccanica vale 700 milioni e il 42% di Saipem vale 2,9 miliardi. Aggiungiamoci pure il 30% di Terna che vale 1,9 miliardi e otteniamo 30,5 miliardi di euro. Praticamente in una goccia nel mare dei 2.074 miliardi di debito pubblico, certificati da Bankitalia a fine maggio.

Certo, il fatto che l’incasso non sia eclatante non è una giustificazione per l’immobilismo (ancor di più quando si parla di dismettere gli immobili pubblici), vi chiediamo però se sia giusto consegnare le nostre eccellenze a un investitore straniero solo perché lo Stato da oltre 40 anni spende tra pensioni, sanità e dipendenti pubblici molto di più di quello che incassa.

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