A un anno dall’entrata in vigore, i nefasti effetti della Riforma firmata da Elsa Fornero, continuano a piegare l’Italia e il suo mercato del lavoro: giovani, over 55 e disoccupati sono sospesi in una situazione per molti aspetti peggiore di quella che Wall & Street vi ha raccontato a marzo.

Se l’effetto immediato di applicazione della Riforma registrato nei primi sei mesi, era stato una riduzione dei contratti a progetto (-20,2%), un aumento dei contratti a tempo indeterminato (+8,2%) e dei contratti di apprendistato (+3,2%), ora tali effetti si sono sostanzialmente annullati. A rilevarlo è la ricerca avviata a giugno da  Gi Group Academy, la fondazione di Gi Group nata per promuovere la cultura del lavoro, coinvolgendo un campione di 351 aziende tra imprenditori e  capi del personale di pmi. Le aziende si trovano perlopiù nel NordOvest (37%), seguite dal Centro (22%), dal Sud (21%) e dal Nord-Est (20%). Il settore maggiormente rappresentato è il commercio (39%), seguito da Industria (28%) e servizi (24%).

Ecco la fotografia scattata dalla ricerca:

  • La maggior parte delle imprese analizzate ritiene che la Riforma Fornero (legge 92/2012) non abbia apportato alcun cambiamento rispetto a flessibilità in entrata, contrattazione di secondo livello, gestione dell’uscita, politiche attive e ammortizzatori sociali, né dal punto di vista dell’efficacia né dal punto di vista dell’efficienza. In particolare, per quanto riguarda la gestione della flessibilità in entrata, il 43,6% del campione ritiene non vi sia stato nessun cambiamento, contro un 40,2% che pensa vi sia stato un peggioramento e un 16,2% per il quale vi è stato un miglioramento. Prevale il sentiment del “non cambiamento” soprattutto sul tema delle politiche attive, degli ammortizzatori sociali e della contrattazione di secondo livello.
  • L’ambito rispetto al quale la Riforma ha esercitato l’impatto maggiore è la flessibilità in ingresso (49,9%), seguita dalla gestione della flessibilità in uscita (18,5%) e dall’utilizzo di ammortizzatori sociali (16%);
  • A un anno di distanza non si riscontrano variazioni evidenti rispetto al numero di aziende che utilizza i diversi tipi di contratto. Diminuiscono solo le realtà che ricorrono agli stage (-5,2%) e ai contratti di collaborazione a progetto (-3,7%);
  • Solo il 23,4% delle imprese sostiene di aver compiuto delle trasformazioni di contratti non a tempo indeterminato. In particolare, nel 73,2% dei casi si è optato per altre forme flessibili (tempo determinato 25,6%, contratti di apprendistato 14,6%, co.co.pro. e partite iva 12,2%, somministrazione a tempo determinato 8,5%, altro 12,2%) mentre, solo nel 26,8% dei casi si è optato per contratti a tempo indeterminato;
  • Il 56,4% delle aziende dichiara di aver gestito almeno un inserimento nel primo semestre 2013. Questa percentuale risulta più bassa di 4,9 punti rispetto a quella registrata nello stesso periodo del 2012 (56,4% contro il 61,3%).

 

«Alla Legge Fornero – commenta Stefano Colli-Lanzi, ceo di Gi Group – va riconosciuta la capacità di aver agito su alcuni temi apicali del mercato del lavoro, come l’articolo 18, le politiche attive, la stretta sulla cattiva flessibilità. Tuttavia è stata una Riforma fatta in condizioni di emergenza, che hanno imposto, considerata la ristrettezza dei tempi, un compromesso al ribasso: il risultato è una Riforma che non ha inciso sui comportamenti delle aziende. Questo è di per sé già un risultato negativo: con una produttività inferiore di oltre il 30% a quella tedesca, il sistema delle imprese italiane non può permettersi di restare inerte. Sarebbe oggi più che mai necessario portare a compimento il disegno che stava all’origine della Legge Fornero: oggi invece il rischio è che l’emergenza spinga verso la direzione opposta».

 

Ma analizziamo il quadro per fasce di età

  • A un anno dalla Riforma, sono meno della metà del campione le aziende (il 44,4%) che hanno assunto giovani fra i 15 e i 29 anni, pari al 55% degli inserimenti complessivamente. In totale, in questo periodo le aziende oggetto dell’indagine hanno assunto 16.403 giovani. La maggior parte dei ragazzi è stata inserita con contratti di collaborazione a progetto (38,7%), seguono poi i contratti a tempo determinato (24,5%), i tirocini (13,2%), i contratti a tempo indeterminato (7,6%), l’apprendistato (6,3%), i contratti di inserimento (6,1%), la somministrazione a tempo determinato e indeterminato (3,1%) e la partita Iva (0,6%).
  • I lavoratori maturi “restano un problema non gestito” per il 47,6% delle imprese e la soluzione maggiormente impiegata per gestirli è rappresentata dall’utilizzo delle competenze e delle esperienze dei lavoratori più maturi per affiancare quelli più giovani (coaching/mentoring)”.
  • Le aziende che hanno fatto ricorso alla staffetta intergenerazionale, strumento introdotto nel Pacchetto Lavoro del governo Letta, sono solo il 4,3%.

 

Per quanto riguarda infine gli ammortizzatori sociali, sebbene la Riforma Fornero abbia raccomandato di utilizzare l’outplacement, nulla è cambiato per quanto riguarda il ricorso alla ricollocazione professionale da parte delle imprese: la percentuale è rimasta invariata al  2%. Quasi un terzo del campione (il 31%) non sa dire se la propria azienda possa ricorrere a determinate forme di politica passiva del lavoro: un dato questo, che attesta come nel nostro Paese sia ancora troppo limitata la conoscenza di questa tipologia di strumenti.

«A un anno dall’entrata in vigore della Riforma – prosegue Colli Lanzi – non è aumentato il numero di giovani inseriti con l’apprendistato: rappresentavano il 6,4% prima della sua approvazione e tale percentuale è rimasta sostanzialmente invariata. L’apprendistato è uno strumento che nasce per orientare l’imprenditore ad investire sulla formazione delle persone, in modo da indurre ad un chiaro impegno entrambe le parti. Bisogna sanare l’equivoco secondo cui questo contratto dovrebbe essere flessibile ed economico, indipendentemente dall’impegno formativo, come se si trattasse di uno strumento di puro avviamento lavorativo, cosa che non è». La Riforma conteneva una raccomandazione a ricorrere all’outplacement, ma anche in questo caso la percentuale di aziende che ha fatto ricorso a questo strumento è stabile al 2%. «Ritengo che il mondo delle imprese dovrebbe lanciare una sfida e proporre un patto: in cambio di una flessibilità in uscita più trasparente, dalle regole certe e meno costosa, farsi carico, mediante società di outplacement, della ricollocazione dei lavoratori licenziati. Questa soluzione rappresenterebbe un’opportunità per tutti gli attori coinvolti: per le imprese, per le persone, che potrebbero veder diminuire in modo drastico il tempo necessario per trovare un nuovo lavoro e per tutto il Sistema-Paese nel suo complesso».

Wall & Street

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