Il Jobs Act, che il nuovo premier Matteo Renzi dovrebbe varare il mese prossimo, si fonda su un contratto di lavoro unico a tempo indeterminato con garanzie crescenti nei primi tre anni di vigenza (in pratica l’articolo 18 sarebbe sospeso per 36 mesi). Chi assume dovrebbe avere diritto a sgravi fiscali (questo tema fa però parte della riforma tributaria annunciata) senza che questi siano agganciati a particolari caratteristiche dell’assunto (età, disoccupato di lungo termine). Chiediamo a Stefano Colli-Lanzi – che ha creato e guida Gi Group, la maggiore agenzia per il lavoro interinale in Italia, se la riforma funzionerà e se sarà utile per ridurre una disoccupazione ormai insostenibile anche a livello di allarme sociale. E’ una proposta che  «va approfondita, come tutto il Jobs Act, ma certamente è una proposta che va nella direzione di restituire al contratto a tempo indeterminato il ruolo che gli appartiene, quello cioè di contratto principale del mercato del lavoro. E perché ciò accada va, appunto, eliminata l’attuale inamovibilità, costruendo un tempo indeterminato nuovo, dove le tutele per il lavoratore in uscita crescono in relazione all’anzianità di servizio, con indennità risarcitoria e supporto obbligatorio alla ricollocazione in caso di licenziamento».

 

Per quanto riguarda il contratto a tempo determinato si dovrebbe introdurre l’eliminazione della causale come fattore determinante per la stipula fino a 36 mesi (in modo tale da non creare disparità con il contratto a tempo indeterminato). Sembra una buona mossa. Ci sono controindicazioni?

«Se parliamo di contratto a tempo determinato stipulato direttamente tra impresa e lavoratore, il rischio è che quest’ultimo resti solo alla fine del periodo di lavoro e che nessuno si prenda cura della sua employability. Se, invece, si intende eliminare la causale anche al contratto di somministrazione tramite agenzia, beh, questa è un’ottima idea, perché consentirebbe di demandare la gestione della flessibilità, quella vera, a chi ha tutte le competenze per gestirla. Il contratto di somministrazione costituisce una soluzione vincente per tutti: per le aziende, che avrebbero a disposizione strumenti intermediari in grado di meglio gestire i livelli di flessibilità richiesti certi; per i lavoratori, che avrebbero alle spalle un’agenzia in grado di garantire un sistema di welfare completo e capace di affiancarli in un percorso di crescita professionale, grazie ai fondi bilaterali Formatemp (formazione), Ebitemp (prestazioni socio-sanitarie integrative), Fontemp (previdenza integrativa); per la collettività in quanto garanzia di corresponsione dei contributi e del rispetto delle regole».

 

Renzi avrebbe intenzione di puntare sul Fondo di garanzia per i giovani, ovvero risorse Ue destinate a incentivare l’occupazione under 25 (la dotazione minima è di circa 530 milioni) attraverso l’apprendistato e la formazione continua. Ottime intenzioni, ma finora su questi scogli quasi tutti si sono arenati.

«Vedremo cosa riuscirà a fare di diverso e di migliore da chi lo ha preceduto: su questo come su tanti altri temi. Un merito che gli va però riconosciuto è quello di  aver posto nuovamente la necessità di un pensiero organico sul mercato del lavoro, tanto che subito dopo l’uscita del Jobs Act abbiamo assistito a controproposte complessive. Tornando alla domanda: certamente c’è bisogno di fare di più e meglio sia in tema di apprendistato che di formazione continua».

 

Il Jobs Act non parla di apprendistato, forma contrattuale che sarebbe sussunta dalle altre. Giusto o sbagliato?

«Sbagliato non parlarne. Dal mio punto di vista all’apprendistato professionalizzante andrebbe assegnato il ruolo di principale sistema di ingresso nel mercato del lavoro per i giovani dai 18 ai 30 anni. Per assolvere a questo compito l’apprendistato deve però essere incentrato sulla formazione e occorre spingere le aziende ad investire sulla professionalità dei giovani. Per questo diventa necessario rafforzare ed incentivare l’obbligo formativo, a fronte di un’ulteriore riduzione in termini di retribuzione e contribuzione del costo del contratto. Cosa che già succede in Germania, per esempio, dove non a caso il contratto di apprendistato ha molto più successo che da noi».

 

È logico parlare di salario minimo in un Paese che registra il 41,6% di disoccupazione giovanile?

«Sinceramente ancora non mi è ben chiaro in cosa l’Assegno Universale proposto possa differire dall’attuale sistema dell’ASPI: forse la versione finale del Jobs Act potrà essere più esaustiva su questo punto.  Al di là dei nomi che verranno utilizzati e degli ambiti di applicazione dei diversi strumenti, è chiaro che un sostegno economico immediato per chi perde il posto di lavoro o non riesce a trovarlo è certamente un primo aiuto, oltre che un segno di civiltà. Fermarsi qui, tuttavia, significherebbe rimanere nel solco delle pure politiche passive a discapito delle politiche attive. E non basta, oggi, subordinare la ricezione di tale assegno alla frequentazione di un corso di formazione professionale: ci vuole qualcosa di più, qualcosa che aiuti la persona a inserirsi o re-inserirsi al più presto nel mercato del lavoro. Per i giovani occorre ben altro, servono percorsi chiari…»

 

E soprattutto il sussidio di disoccupazione non potrebbe trasformarsi per la sua onerosità in una fonte di nuove tasse?

«Si, ma poi il punto è che occorre rimettere in moto la persona più che assisterla. Mi ha infatti un po’ sorpreso la mancanza di qualsiasi accenno al servizio di ricollocazione professionale, conosciuto anche come outplacement. Un servizio attraverso cui aziende autorizzate dal Ministero del Lavoro, in quanto dotate di competenze specifiche, supportano  le persone che perdono il lavoro nella ricerca di uno nuovo. Un servizio che funziona: lo dico a ragion veduta, considerando che la principale azienda di outplacement italiana (INTOO) fa parte del mio gruppo e ricolloca nel mercato del lavoro mediamente in 6 mesi quasi il 90% delle persone affidate, siano essi operai, impiegati o dirigenti. La nostra esperienza quotidiana ci dice che se alla politica passiva non si affianca da subito uno strumento di ripartenza la persona si adagia ed è portata ad arrotondare (in nero) l’assegno che percepisce, difendendolo fino alla scadenza, invece di attivarsi nella ricerca di un nuovo lavoro. Per questo la mia proposta è semplice: che il servizio di outplacement diventi obbligatorio per le aziende che licenziano. E se il lavoratore rifiuta la proposta di lavoro che scaturisce dal servizio di outplacement? Sono d’accordo con quanto propone Renzi, subordinando l’assegno universale all’accettazione della proposta di lavoro. Oppure potremmo fare come in Germania, dove l’assegno viene decurtato mano a mano che il lavoratore rifiuta le proposte che gli vengono fatte».

 

Il Jobs Act nella sua prima formulazione proponeva una riforma dei centri per l’impiego, coordinati e indirizzati da una Agenzia unica federale, con l’obbligo di rendicontazione delle spese sostenute per la formazione e introduzioni di standard di performance. Non sarebbe meglio lasciar fare al mercato?

«Per la formazione è innanzitutto necessario affermare un principio base: va finanziata la domanda, non l’offerta. Per anni in Italia i soldi dei contribuenti hanno finanziato enti di formazione dalla dubbia utilità che hanno prodotto corsi ancor più inutili, completamente slegati dalle esigenze del mercato del lavoro. Prima quindi di agire sulla rendicontazione è necessario ribaltare l’approccio al tema, mettendo nelle mani delle persone, attraverso sistemi come il voucher, la possibilità di scegliere a quale operatore affidarsi. E’ inoltre necessario lavorare secondo logiche di premialità, dove gli operatori privati che offrono servizi di qualità vengono remunerati sulla base del risultato finale: questo permetterebbe una sorta di “selezione naturale” degli operatori, facendo prosperare quelli con più alti tassi di successo, ed eviterebbe lo spreco di denaro pubblico. Quanto all’Agenzia unica federale, va ricordato che in Italia ci troviamo di fronte ad un paradosso: le (poche) politiche attive vengono gestite dalle regioni. Le (molte) politiche passive vengono gestite dall’Inps. La legge Fornero ha previsto un tavolo nazionale di coordinamento che tuttavia non è mai stato reso operativo. I centri per l’impiego italiani inoltre dipendono dalle province (slegati quindi da chi eroga le politiche passive). Risultato, non vi è alcun coordinamento tra le une e le altre. Un’Agenzia Unica Federale è dunque certamente una buona idea ma solo se va nell’ottica di un più efficace coordinamento delle politiche del lavoro, attive e passive; questo permetterebbe per esempio di gestire al meglio attraverso un unico soggetto il principio di condizionalità. Lasciar fare completamente al mercato, senza un coordinamento centrale e un monitoraggio dei risultati, certamente no. Ma approfittare delle forti competenze presenti in soggetti di diritto privato, come le Agenzie per il lavoro, e della loro dislocazione sul territorio, accreditando le migliori e monitorandone le performances, questo si. Contribuirebbero così ad un compito di interesse pubblico, in maniera utile a tutta la collettività».

 

Sempre nella prima versione, il Jobs Act teorizzava una nuova legge sulla rappresentatività sindacale con l’ingresso dei rappresentanti dei dipendenti nei cda. A parte il fatto che Confindustria e sindacati hanno siglato di recente un’intesa vincolante che, seppur migliorabile, prevede l’esigibilità dei contratti, questa continua rincorsa al coinvolgimento della parte più estrema del sindacato non è, di per sé, un fatto negativo?

«Per risponderle parto da due considerazioni, frutto dell’esperienza del lavoro che faccio: sempre più, e questo vale non solo per l’Italia, noto una pericolosa deriva dove si tende a privilegiare il capitale a discapito del lavoro. È una tendenza più o meno generalizzata che crea squilibri sociali. Allo stesso tempo mi sento di dire che l’azienda, per sopravvivere e prosperare, ha bisogno di una governance chiara e univoca. Queste due evidenze mi portano a considerare che, più che una compartecipazione alle decisioni aziendali nei cda, sarebbe necessaria una compartecipazione dei lavoratori alla ricchezza prodotta dall’azienda. Sarebbe pertanto interessante provare ad immaginare soluzioni più innovative sul lato della distribuzione degli utili».

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