La visita in Italia del presidente americano Barack Obama di due settimane fa è servita anche per fare il punto sulla situazione in Ucraina. Una situazione che non accenna a migliorare giacché il governo provvisorio accusa la Russia di fomentare la secessione. La linea attendista di Washington e, di conseguenza, della Nato potrebbe avere le ore contate.

In quel caso lo scenario che Wall & Street vi avevano descritto in un recente post potrebbe avverarsi. E proprio da quelle considerazioni vogliamo partire per analizzare uno scenario molto complesso e che potrebbe vedere l’Italia più svantaggiata rispetto agli altri attori in gioco. Come noto, gli accordi tra il nostro Paese e la Russia (relazioni rafforzatesi grazie all’ottimo rapporto personale tra Silvio Berlusconi e Vladimir Putin) riguardano in primo luogo il comparto energetico. Eni e Gazprom sono partner non solo nella commercializzazione di gas ma anche nella realizzazione del gasdotto South Stream la cui realizzazione potrebbe essere bloccata da un’escalation in Ucraina se si stringessero ulteriormente le sanzioni nei confronti di Mosca.

Il presidente Usa, Barack Obama, ha proposto al premier Matteo Renzi di importare lo shale gas americano. E, non a caso, l’altro colosso di casa nostra, Enel, ha da pochi giorni siglato un’intesa per importare il gas di scisto estratto negli Stati Uniti a partire dal 2019. Beninteso, diversificare le fonti di approvvigionamento energetico è un dovere per un paese povero di risorse naturali come il nostro e, soprattutto, crocevia tra aree geopolitiche in forte tensione come Medio Oriente, Africa Settentrionale e Balcani. Il discorso da fare, però, è un altro: ci conviene tagliare i ponti con la Russia in materia di gas?

Shale gas, rischi e opportunità

 

Per shale gas si intende il gas intrappolato in rocce argillose a profondità comprese tra 2.000 e 4.000 metri. L’estrazione è molto più complicata rispetto ai giacimenti tradizionali perché il flusso verso la superficie è più difficoltoso e, dunque, occorre spaccare le rocce e iniettare un fluido (generalmente acqua) che spinga il gas verso l’alto. Il procedimento, va da sé, è più costoso anche perché occorre operare su aree più estese rispetto a un normale giacimento per ottenere una produttività comparabile (generalmente si riesce a recuperare solo il 30% del gas intrappolato nelle rocce argillose). Gli Stati Uniti, che sono ricchi di giacimenti di shale gas (il 40% del totale stimato su base globale), hanno abbassato il costo della loro bolletta energetica grazie a questa scoperta.

Anche l’Europa ne sarebbe ricca: il gas non convenzonale è stato indviduato in Norvegia, Gran Bretagna, Francia e Polonia. E anche in Ucraina vi sarebbero dei giacimenti che i giganti americani sono in procinto di sfruttare. Il che conferisce alla contesa su Kiev tra Mosca e Washington tutta un’altra luce. Tuttavia per sfruttare un giacimento di shale gas occorrono le spalle larghe: perforare a elevate profondità, spaccare le rocce con trivelle che funzionano anche in orizzontale e l’iniezione di grandi quantità di acqua (con conseguente sottrazione della risorsa idrica ad altri scopi) fanno storcere il naso ai soliti ambientalisti. Senza contare il terrorismo mediatico che stabilisce una correlazione tra le perforazioni a elevate profondità e il verificarsi di eventi sismici (si tratta di microfenomeni e i geologi non sono tutti concordi). L’Italia, che già di per sé non è ricca di shale gas, ha deciso di rinunciare in partenza all’esplorazione per non aprire un altro fronte con i professionisti del «no».

Gli Usa non sono pronti a esportare

Il fatto che l’accordo siglato da Enel abbia validità a partire dal 2019 la dice lunga sulla possibilità attuale che gli Stati Uniti si privino di una risorsa energetica che per oltre il 90% viene sfruttata nei confini nazionali. A 650 miliardi di metri cubi di produzione corrispondono 700 miliardi circa di consumo. Quando i nuovi giacimenti entreranno in produzione anche i colossi Usa potranno pensare di esportare ma ci vorrà ancora qualche anno.

La Russia ha una produzione solo leggermente inferiore a quella Usa, ma consuma molto meno e pertanto rende disponibili circa 200 miliardi di metri cubi dei quali circa 130 vanno dritti dritti in Europa a un prezzo che supera di poco i 30 centesimi di dollaro al metro cubo. Lo shale gas negli Usa costa 10 centesimi ma per esportarlo va liquefatto, trasportato per nave e poi rigassificato. Il rischio concreto è che il prezzo si avvicini ai 70 centesimi al metro cubo ai quali si acquista a oggi il gas liquefatto in Asia, anche se i buoni rapporti con Washington possono farci ottenere uno sconto. D’altronde, il gas russo conta solo per il 28% del fabbisogno italiano. Se lo si perde, però, bisogna avere delle valide alternative, altrimenti il sistema industriale rischia un’ulteriore perdita di competitività. Anche se già iniziano a profilarsi scenari improntati al risparmio fatti di temperature più basse in casa e di industria pesante (metallurgia e metalmeccanica) costretta ai sacrifici. Senza tener conto che Pechino è interessatissima ad acquistare a sconto il gas che Gazprom non dovesse più piazzare a Occidente.

Le infrastrutture che mancano

In Italia abbiamo solo due rigassificatori: quello di Panigaglia, in Liguria, e quello di Porto Viro a Rovigo. I pasdaran ambientalisti hanno bloccato anche un’infrastrutturazione vitale per il nostro sistema economico. Pensate che il rigassificatore veneto è in mare e questo aumenta i costi di gestione dell’impianto. A Brindisi la realizzazione di un impianto simile è stata osteggiata dal governatore pugliese Nichi Vendola e alla fine gli inglesi di British Gas hanno fatto le valigie.

Anche gli Usa non sono messi meglio di noi. Il terminale di rigassificazione è uno solo: in Alaska. Gli altri sull’Atlantico sono in via di ultimazione. Ecco perché, oltre ad aspettare che i giacimenti entrino in funzione, bisognerà pure attendere il rigassificatore giusto per importare dallo zio Sam.

Visto questo scenario poco entusiasmante, non è un caso che la Spagna – che non dipende dal gas russo – si sia offerta di convogliare l’eccesso di offerta verso i Paesi amici dell’Unione Europea. a proposito, in Spagna ci sono una decina di rigassificatori. A questo punto, come ha avvertito l’ad dell’Eni Paolo Scaroni, c’è solo da sperare che s arrivi al 2015 senza ansie. Altrimenti non ci resterà che confidare per una volta in Angela Merkel. La Germania importa il 40% del gas dalla Russia e non accetterà a cuor leggero pressioni esterne su un argomento così fondamentale

Wall & Street

Tag: , , , , , , , , , ,