Essere di centrodestra significa tagliare le tasse. Questo paradigma ve l’abbiamo già raccontato in un recente post. Dalla teoria alla pratica, però, il passo non è breve. Soprattutto quando ci si riferisce alla situazione italiana perché, come sappiamo, la massa enorme del debito pubblico e i vincoli imposti dall’adesione all’unione monetaria europea non consentono margini di manovra sufficienti a tradurre principali liberali in determinazioni politiche. Oltretutto, e anche questo ve l’avevamo detto, una politica economica liberale si deve adottare riferendosi all’ambiente circostante. Poiché i liberali sono amanti dell’equilibrio del bilancio e non del deficit è chiaro che ai tagli si accompagnano i risparmi. L’immediato impulso alla crescita sconta la forza contraria degli effetti recessivi derivanti dal minor intervento dello Stato nell’economia (soprattutto in termini di stipendi pubblici e sussidi vari). In un contesto recessivo come quello attuale anche i tagli richiedono prudenza, anche perché allo Stato mancano le leve della politica monetaria che consentono di attutire i contraccolpi (Margareth Thatcher avrebbe avuto ancora più difficoltà nel chiudere le improduttive miniere statali del Cumberland se non avesse potuto remunerare i minatori licenziati con un incentivo all’esodo, un’analoga opzione oggi come oggi è impensabile anche perché l’Italia non ha la Bank Of England).

Tutto questo non significa che i liberali non possano avanzare proposte per «cambiare verso» all’economia italiana, soprattutto dopo che Matteo Renzi, nonostante il grande successo elettorale, stia incontrando serie difficoltà nel tenere i conti pubblici sotto controllo. D’altronde, ottenere il 40,8% dei voti significa avere precise responsabilità e vellicare il consenso affidato dagli elettori. Ma le scelte politiche liberali non sempre sono popolari: certo pagare meno tasse piace a tutti, ma pochi sono disposti a sopportare il costo di un tale beneficio, cioè il dimagrimento di un welfare state che accompagna il cittadino dalla culla alla tomba, che (male che vada) offre sempre un posto da impiegato statale o, alla peggio, da usciere. Che tassa i giovani per garantire la pensione ai vecchi. Che non fa pagare direttamente scuola e sanità (nel marasma delle tasse nessun individuo  sa quanto devolve effettivamente a questi capitoli).

Le idee, però, ai liberali non mancano. E di recente il presidente della commissione Finanze della Camera, Daniele Capezzone (componente del comitato di presidenza di Forza Italia), le ha messe nero su bianco in un libro che si chiama «Per la rivincita. Software liberale per tornare in partita». Il titolo stesso allude a un chiaro intento politico (ridare al centrodestra italiano strumenti utili a riguadagnare i consensi perduti), ma quello che interessa a noi è il profilo economico delle proposte che sono contenute e che occupano la parte finale del libro. Si tratta, infatti, di un chiaro esempio di riforma fiscale liberale con tutto ciò che ne consegue. In queste pagine si può toccare con mano la politica economica di centrodestra (a livello progettuale, ovviamente) ed avere una chiara dimostrazione pratica del teorema: «Un liberale o taglia le tasse o non è».

«Nel mio libro, tra le varie proposte che metto in campo, quella centrale è lo sfondamento volontario del vincolo del 3%, per realizzare un poderoso taglio di tasse, accompagnato da corrispondenti tagli di spesa, e riforme strutturali (a partire da fisco e lavoro). Il piano prevede 40 miliardi di tasse in meno in 2 anni (e poi 12 nei successivi 3), con tre destinatari: le imprese, i lavoratori e il nucleo famiglia/consumatori. Infine, suggerisco una visione strategica per evitare il rischio di un “Britannia 2” e quindi la definitiva spoliazione e colonizzazione dell’Italia», ha dichiarato Capezzone. Vediamo, quindi, come si articola la sua proposta.

Fiscal Compact da riscrivere

Il primo obiettivo del programma liberale proposto da Capezzone è un «Piano B nel rapporto con l’Europa». Lo dicono tutti, ne hanno fatto anche uno slogan da campagna elettorale, ma la verità è che fino a quando l’Italia sarà incatenata al Fiscal Compact non potrà liberare autonomamente risorse per la crescita. Spieghiamoci meglio, non è che l’Italia sia stata imbrogliata e imbrigliata da Angela Merkel. Il Trattato di Maastricht, quello di Lisbona e il successivo Fiscal Compact sono stati atti siglati dai governi italiani con piena consapevolezza. E nella bufera della crisi del 2012, il Parlamento a larghissima maggioranza ha inserito il pareggio di bilancio in Costituzione. Poiche pacta sunt servanda (nel 2012 l’Ue ha concesso una moratoria sui conti pubblici e il Paese, nel frattempo, è uscito dalla procedura di deficit eccessivo a suon di tasse), all’Italia dal 2015 toccherà sia garantire un pareggio di bilancio strutturale, cioè corretto in base al ciclo economico. Insomma, non si tratta di azzerare il deficit annuale ma di farlo arrivare a zero correggendo il dato con gli effetti del ciclo economico (si sa, siamo in stagnazione e il Pil cresce pochissimo).  Analogamente, bisogna ridurre del 5% annuo il nostro debito pubblico in modo da avvicinare il rapporto debito/Pil a quel 60% che da quota 137% dove siamo ora sembra più irraggiungibile di un miraggio. Il costo di tutte queste correzioni è di circa 60 miliardi. Ora l’Italia non è che non possa approvare misure per la crescita, ma deve farlo salvaguardando i due obiettivi di cui sopra. Vi renderete conto che se già il bonus di Renzi da 80 euro costa 10 miliardi e il governo non sa dove pescare le risorse, pensare a ulteriori incentivi o tagli è molto fantasioso.

Di qui la proposta di Capezzone per riscrivere il rapporto con l’Europa e che poggia su tre capisaldi a cui si aggiungono due ipotesi di lavoro.

  1. Rinegoziazione del Fiscal Compact: le regole del gioco vanno cambiate perché limitano fortemente la possibilità di adottare politiche adeguate al ciclo macroeconomico negativo.
  2. Sforamento del 3% per uno shock fiscale: se l’Italia deve attenersi pedissequamente ai parametri di Maastricht, non potrà mai tagliare le tasse e invertire il ciclo.
  3. La Bce come la Fed: il Tltro lanciato da Mario Draghi va in questa direzione (la Bce presta soldi alle banche affinché finanzino le imprese e, inoltre, compra asset come mutui e prestiti vari). Capezzone ne auspica un ulteriore potenziamento: acquisto di titoli di Stato e intervento sul mercato dei cambi in modo tale da evitare eccessive rivalutazioni della moneta unica.

I primi due punti sono liberali al 100%. Non nel senso dell’inosservanza della disciplina di bilancio, quanto nella ridiscussione di regole che bloccano il mercato e, dunque, il libero dispiegamento delle forze economiche. La terza proposta, invece, tratta un tema più delicato. Sia ben chiaro: noi non siamo filo-tedeschi e le politiche anti-inflattive non sono la nostra bussola (soprattutto in un periodo di deflazione come quello attuale), ma – da un punto di vista liberale – tutto ciò che crea artificiosamente inflazione induce necessariamente alla sospensione del giudizio. Va detto che le politiche espansive della Fed hanno avuto successo nel tirare fuori gli Usa dalla crisi (senza liquidità gratis è difficile pensare che Whirlpool avrebbe potuto comprare l’italiana Indesit), ma ora che Janet Yellen sta pensando di stringere i cordoni della Borsa perché l’economia è ripartita, i mercati, precedentemente «drogati», stanno scontando qualche calo. Tenete conto che la Fed ha buttato liquidità negli Usa al ritmo di 960 miliardi di dollari l’anno, tornare verso lo zero (anche se gradualmente) produrrà scompensi. Inoltre, l’amministrazione Obama, non essendo liberale, non ha tagliato le tasse. Unire il taglio delle tasse auspicato da Capezzone (che comunque crea liquidità, anche perché se fosse tutto assorbito dal costo dei servizi da pagare perché non più gratis sarebbe inutile) a una politica monetaria fortemente espansiva potrebbe rivelarsi un’eterogenesi dei fini.

Veniamo ora alle due ipotesi di lavoro. Si tratta di jolly da giocare con la Commissione Ue  per vincere la trattativa.

  1. Non conteggiare attivi Cdp nel debito pubblico. Se il debito italiano è elevato, è anche perché Eurostat computa nel dato anche i mutuii della Cassa Depositi e Prestiti. Alla Germania viene riservato ben altro trattamento: i prestiti della KfW, l’omologo della Cdp, non sono inclusi nel debito.
  2. Sconto fiscale del 10% sul costo del lavoro. In realtà, si tratta della proposta dei Ccf (certificati di credito fiscale). L’idea è scontare del 10% l’imponibile sul lavoro (reddito lordo per il dipendente; costo del lavoro per l’azienda) assegnando a contribuenti e imprese l’equivalente in Ccf da utilizzare nei due anni successivi per i pagamenti verso lo Stato. Non sono debito ma moneta: possono essere conservati o negoziati.

Due proposte molto interessanti: la prima chiede regole uguali per tutti, come è giusto che sia. La seconda, invece, è una creazione fittizia di moneta in quanto lo Stato non si vede indebitato, ma si vede costretto a minori incassi dopo due anni dall’emissione dei Ccf, periodo nel quale la ripresa economica dovrebbe aver compensato l’effetto negativo. Questa proposta non si può giudicare negativamente, perché contiene un principio liberale per eccellenza, cioè il recupero della leva monetaria (usata con prudenza, però) assieme a quella fiscale.

 

Lo shock fiscale

E veniamo ora alla parte clou del libro di Capezzone, analizzando punto per punto il suo programma che come detto prevede una spesa di 40 miliardi in tre anni e di 12 miliardi nei successivi tre, cioè 52 miliardi di tasse in meno.

  1. Dimezzamento Irap entro un anno e abolizione completa entro 2 anni (costo 24 miliardi nei due anni)
  2. Ires dal 27,5 al 23% nei successivi 3 anni (costo 6 miliardi)
  3. Meno tasse sui lavoratori per 10 miliardi in 5 anni. Da attuare a scelta tra rimodulazione dell’Irpef o aumento delle detrazioni da lavoro dipendente. Noi siamo per la prima ipotesi perché le tasse vanno abbassate, non restituite.
  4. Iva al 20% in due anni (8 miliardi)
  5. Abolizione tassazione sulla prima casa (4 miliardi)

Questa manovra shock costa precisamente costa 22 miliardi il primo anno, 18 miliardi il secondo e 4 miliardi per ciascuno dei tre anni successivi.

Le coperture progettate da Capezzone (non si tratta di un taglio di tasse in deficit strictu sensu) sono articolate come segue:

  1.  16 miliardi da spending review e centralizzazione acquisti (o tagli lineari del 5% come clausola di salvaguardia). Si tratta dell’impresa che sta costando il posto al commissario Carlo Cottarelli. Ecco, inoltre, alcuni dettagli sulla spending review:
    •  5 miliardi dall’applicazione dei costi standard alla sanità pubblica
    •  1 miliardo dal taglio dei costi della politica
    •  1 miliardo dal blocco dei rinnovi contrattuali nella pa, dalla definizione di esuberi e dal taglio degli stipendi dei dirigenti
    •  2,5 miliardi dall’abolizione secca delle Province e dall’accorpamento delle Regioni
    •  Liberalizzazioni e privatizzazioni delle utilities.
  2. Taglio degli incentivi alle imprese per 6 miliardi. 
  3. Tagli delle agevolazioni fiscali per 10 miliardi. 
  4. Taglio dell’Iva agevolata per 8 miliardi. 
  5. 5 miliardi in meno di costo debito pubblico da 140-150 miliardi di dismissioni.

 

Il taglio delle tasse viene prima di quello della spesa (le dismissioni, come si sa, non possono essere immediate al contrario del taglio delle tasse) e quindi, per questo motivo, si richiede lo sforamento  del 3% nel rapporto deficit/Pil. Il totale delle coperture proposte da Capezzone è di 45 miliardi contro i 52 miliardi di costo totale della manovra, ma più che di creazione di deficit bisogna spiegare che i 40 miliardi della manovra biennale sono coperti, mentre la parte residua deve giungere dalla dismissione di asset pubblici.

A tutto questo si accompagna una vera riforma del mercato del lavoro, che segue le linee guida che Wall & Street già in passato vi hanno proposto:

  • abolizione dell’articolo 18
  • abolizione della limitazione contratti atipici prevista dalla controriforma Fornero
  • più apprendistato
  • mini-jobs alla tedesca

 

No alle svendite

Il proposito di Capezzone, però, è evitare un «Britannia 2», ossia evitare, come accaduto nel 1992 sul panfilo della Regina Elisabetta ancorato all’Argentario, che le grandi banche internazionali, appoggiate dal governo, possano mettere mano sugli asset strategici italiani

Gli asset strategici per l’interesse nazionale non si toccano. Dentro Eni, Enel e Finmeccanica ci sono valori immensi.

Ecco, dunque, le proposte di Capezzone per recuperare risorse:

  • Vendita di immobili e caserme per 15-20 miliardi l’anno
  • Vendita di asset e diritti dello Stato, a cominciare dalle utilities
  • Valorizzazione delle concessioni demaniali
  • Convenzione con la Svizzera per gli asset detenuti in quel Paese.
  • Vendita eventuale di asset mobiliari

A tutto questo si deve aggiungere una nuova disciplina della golden share per evitare attacchi agli asset strategici.

Wall & Street

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