A molti di voi questa foto non dirà nulla. A noi, invece, sì. È uno scatto dell’ottobre 2002 durante l’inaugurazione della prima filiale milanese della Banca Popolare di Bari, in Piazza Diaz, a due passi dal Duomo. Al centro c’è il presidente dell’istituto Marco Jacobini. Accanto a lui si riconoscono l’ex governatore della Regione Puglia, Raffaele Fitto (oggi eurodeputato) e l’ex sindaco di Bari, Simeone di Cagno Abbrescia. La presenza dei due massimi esponenti politici pugliesi testimoniava la storicità dell’evento: un medio gruppo bancario meridionale aveva «conquistato» la capitale della finanza italiana piantando la propria bandierina.

Qui sopra vedete, invece, le tre filiali che oggi la Popolare di Bari conta a Milano. alla prima di Piazza Diaz si sono aggiunte quelle di Porta Romana e di Corso Sempione. Passo dopo passo, senza mai fare il passo più lungo della gamba il gruppo barese ha seguito una lenta strategia di crescita. Prima acquisendo delle piccole banche locali nel Sud Italia (Campania e Calabria) e poi, approfittando della necessità dei supergruppi di liberarsi delle filiali in eccesso. Nel 2007, infatti, furono acquisite le agenzie meridionali di Intesa Sanpaolo e nel 2008, quando Ca’ de Sass inglobò CariFirenze, acquisì la maggioranza di CariOrvieto. Tutto senza eccessiva finanziarizzazione: a ogni espansione è sempre corrisposto un aumento di capitale, come l’ultimo chiuso qualche mese per inglobare la periclitante Banca Tercas. Eh sì, perché in anni di crescita ordinata la Popolare di Bari ha acquisito notevole credibilità in Banca d’Italia diventandone un interlocutore privilegiato nel momento in cui la crisi globale ha forzato le integrazioni.

Il piano industriale che la Popolare di Bari si appresta a varare sotto la regia del direttore generale Vincenzo De Bustis riguarderà un gruppo da circa 400 sportelli, 3.200 dipendenti, attività totali per 15 miliardi di euro e 550.000 clienti. E proprio l’essere cresciuta, passo dopo passo, ha fatto cadere la Popolare di Bari nellae maglie del Dl Investment Compact del governo Renzi che prevede la trasformazioni delle Popolari con oltre 8 miliardi di attivi in spa: addio voto capitario (cioè una testa un voto indipendentemente dalle quote possedute), addio tetto al possesso delle quote e addio specificità.

Magari potrà sembrarvi che un barese come Wall intenda usare il blog per una bella orazione pro domo sua. E invece no. Abbiamo scritto di Popolari meno di quanto avremmo dovuto, proprio per evitare di trasformare il blog in una specie di «Batti & Ribatti» all’americana. Wall è da sempre favorevole a una trasformazione delle grandi Popolari quotate in spa e, sinceramente, avrebbe auspicato che l’avventura di Andrea Bonomi alla Banca Popolare di Milano si concludesse con una profonda rivoluzione di Piazza Meda che la facesse diventare quello che è: un grande gruppo bancario italiano, ormai sempre meno vincolato a quello che è il suo territorio di riferimento (ancorché Bpm, essendo milanese, sia legata a quasi tutti i grandi finanziamenti corporate di Piazza Affari). Street, invece, è favorevole alla conservazione di quella specificità che fa delle Popolari un punto di riferimento per famiglie e imprese che cercano nelle banche un rapporto dal volto umano. E questo convincimento lo ritrovate, leggendo fra le righe, anche nei suoi articoli sul Giornale, come il suo commento sulla riforma.   O come la dettagliata analisi sulle contromosse di Assopopolari, l’associazione che riunisce tutte le «cooperative».

Alla fine, l’unico modo con il quale possiamo argomentare sono i numeri. Cominciamo dal fronte del «no». Lo ha spiegato la Cgia di Mestre qualche giorno fa perché sia necessario lasciare le Popolari al loro posto. Nell’arco di tempo che va dall’inizio della fase di credit crunch (2011) sino alla fine del 2013, le Popolari hanno aumentato i prestiti alla clientela del 15,4%; diversamente, quelle sotto forma di spa e gli istituti di credito cooperativo hanno diminuito l’ammontare dei prestiti rispettivamente del 4,9 e del 2,2 per cento. Lo stesso trend negativo è stato registrato anche dalle banche estere presenti nel nostro Paese: sempre tra il 2011 e il 2013, i prestiti sono diminuiti del 3,1 per cento. In particolare, le due Popolari venete coinvolte dal decreto di Renzi – PopVicenza e Veneto Banca – hanno incrementato il volume dei prestiti rispettivamente del 9 e del 2,5 per cento. Secondo Assopopolari, la riforma delle banche popolari mette a rischio 20mila posti di lavoro in due anni e determinerà una contrazione pari a 3 punti percentuali di Pil, un calo dei crediti a clientela di 80 miliardi di euro di cui 25 miliardi per le famiglie e 55 per le imprese. «Il decreto – si legge in una nota – metterà in moto un meccanismo speculativo con un progressivo trasferimento della proprietà di una parte rilevante del sistema bancario italiano alle grandi banche internazionali».

Per contro, Ricerche & Studi Mediobanca ci ricorda che nel 2013 il costo del lavoro per dipendente nelle banche italiane è sceso del 4,6% rispetto al 2012, portandosi a 70.600 euro da 74.100. Per le Popolari si è attestato a 69.900 euro (-1,7% annuo), poco sotto la media. Sempre nel 2013 hanno chiuso poco più di mille sportelli (-3,3%) scendendo a 30.264: -1,2% le Popolari (circa 80). Insomma, ci sono molti risparmi ancora da conseguire negli istituti a carattere mutualistico. Basta guardare il bilancio 2013 della Popolare di Bari per rendersi conto che i costi operativi sono stati pari al 66,6% del margine di intermediazione, cioè si sono mangiati due terzi dei ricavi. Le spese per il personale (148,6 milioni) sono state pari al 45% degli introiti. Va da sé che gli analisti abbiano accolto favorevolmente il progetto di riforma. La trasformazione in spa che renderebbe le Popolari scalabili può accelerare la creazioni di sinergie di costo derivante dalle aggregazioni: Banca Akros stima un miliardo circa di risparmi sui costi dalle sinergie che si creerebbero, con un conseguente rialzo del 20% per le quotazioni delle Popolari in Borsa (Ubi, Banco Popolare, Bper, Bpm, BancaEtruria, PopSondrio, Creval). Barclays è stata più prudente e prevede la possibilità di realizzare un 10% di risparmi sui costi che si tradurrebbe in un analogo incremento del Roe.

Come ha detto il numero uno del gruppo Investindustrial (nonché ex presidente del cdg di Bpm), Andrea Bonomi: «Se colgono l’occasione le Popolari possono rimanere delle banche di stile popolare e costruirsi un futuro non completamente diverso da quello che avevano quando sono state concepite con una struttura che era all’epoca innovativa e che oggi purtroppo ha mancato di evoluzione». Il problema è che «non possono dire che questo non gli sia stato detto sia dalla Bce che dalla Banca d’Italia, per cui è una cosa ben conosciuta. Personalmente in banca l’ho detto a tutti incluso alla pianta di ficus che era all’entrata! Che era ora di svilupparsi…», ha aggiunto. Bonomi ha colto la questione nel segno: le Popolari hanno resistito alla moral suasion del governatore di Bankitalia, Ignazio Visco, che negli anni scorsi le ha spinte ad autoriformarsi e ad aprirsi completamente al mercato. Senza successo, perché il processo avviato da Assopopolari (sostanzialmente indirizzato verso una minora chiusura ai fondi di investimento) era di là dall’essere completato. D’altronde, nessuno vuole rinunciare a un potere che si è conquistato nel corso degli anni.

E qui nessuno disconosce quella funzione importantissima che le Popolari hanno avuto sin dalla fine del XIX secolo, fungendo da antesignane della dottrina sociale della Chiesa teorizzata da Papa Leone XIII (l’impianto cattolico è rimasto inalterato in ognuna di esse). Ma oggi possiamo vedere veramente Ubi, Banco e Bpm solo come degli istituti di credito mutualistici? La risposta non può che essere negativa.

E, comunque, il problema dell’efficienza degli istituti di credito non si risolve certo con un golpe, come può considerarsi un decreto legge calato dall’alto. Un golpe violento perché prende in contropiede anche il sindacato, che ha organizzato uno sciopero generale venerdì prossimo a causa del mancato rinnovo contrattuale. «Rifomare le Popolari, che hanno sempre sostenuto l’economia dei territori, trasformandole in spa è un errore perché inevitabilmente si creerebbero le condizioni per ulteriori tagli del personale e di numeri importanti in tema di esuberi. Ci auguriamo che la sensibilità sociale del presidente Renzi sia al fianco delle organizzazioni sindacali che, nell’attuale rinnovo contrattuale, stanno difendendo, con ogni mezzo, i posti di lavoro», ha dichiarato Lando Maria Sileoni, segretario della Fabi, il principale sindacato bancario per poi rinfocolare la battaglia della Fisac-Cgil di Agostino Megale contro i superstipendi dei top banker: «Quando si chiedono sacrifici economici ai lavoratori e si perdono 68mila posti di lavoro in 15 anni   anche i vertici devono dare l’esempio. E di banchieri che  hanno dato l’esempio, tagliandosi lo stipendio, ce ne sono davvero pochi».

«Gli esami della Bce hanno evidenziato che il sistema bancario italiano ha particolari rischi in due società per azioni, non nelle Popolari», ha sottolineato il segretario del sindacato bianco Fiba-Cisl, Giulio Romani domandando retoricamente: «Quello che è successo in Mps è colpa della governance delle Popolari? E in Carige? O ancora in Banca Marche? O in Tercas?». «I  fatti dimostrano che non è un problema di governance, né delle Popolari e nemmeno delle spa, ma del comportamento di certi banchieri», ha concluso.  «Per non parlare della democrazia   economica – ha aggiunto il capo della Uilca, Massimo Masi – sono stato alle   ultime assemblee di Mps e Bper: nella prima hanno deciso  tutto 20 persone, nella seconda 20mila. Qual è la più   democratica?».

 

Alla fine, resta sempre il sospetto che questa riforma, ancorché utile, ancorché innovativa, ancorché necessaria, sia stata tirata fuori dal cilindro per un secondo fine: agevolare aggregazioni finalizzate al salvataggio di istituti in difficoltà come Mps e Carige che, altrimenti, sarebbero a forte rischio dopo la bocciatura agli stress test della Bce. Lo ha spiegato bene l’ex commissario Consob, Salvatore Bragantini, sul Corriere della Sera affermando che: «Il motore (del decreto, ndr) è forse la necessità di ristrutturazione nelle banche italiane uscite male dagli esami Bce. Per Mps e Carige si parla di aumenti di capitale o fusioni, coinvolgenti banche popolari, ma operazioni essenziali per la stabilità e gradite agli investitori potrebbero soccombere al voto capitario».

Il «non passa lo straniero»in un mercato globalizzato non ha più ragion d’essere, fatti salvi – ad esempio – alcuni settori di interesse nazionale come energia e difesa. Bnl e Cariparma sono gestite molto bene e sono di proprietà francese. È vero, però, che la Bce ha sempre chiesto alle Popolari di non rintanarsi nella loro specificità ed è anche vero che l’Italia raramente ha mosso un dito (a differenza della Francia o della Germania) per salvaguardarle in tutto e per tutto. Il criterio della grandezza degli attivi (8 miliardi di euro) sembra abbastanza adeguato, soprattutto per le realtà quotate in Borsa. Più passa il tempo, però, più è difficile comprendere perché istituti non quotati come Polare di Bari, Popolare Vicenza e Veneto Banca debbano adeguarsi a questo nuovo regime anche se ormai presenti su tutto il territorio nazionale e non più istituti a vocazione locale. Sindacati e la lobby delle Popolari, che conta appoggi bipartisan in Parlamento, sta preparando le contromosse.

Wall & Street

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