Milano. La testa del corteo guidato da Lando Maria Sileoni (Fabi) e Susanna Camusso (Cgil)

 

La Cgil “operaia” di Susanna Camusso  sfila, per la prima volta,  a fianco dei colletti bianchi bancari iscritti alla Fabi di Lando Maria Sileoni (la principale sigla del settore con oltre 100mila iscritti) per ottenere il rinnovo del contratto nazionale del credito.  E’ questo il principale dato politico dello sciopero che oggi ha portato – calcolano i sindacati – 30mila bancari in piazza in quattro città italiane, all’acme della guerra in corso con l’Abi, la lobby delle banche: il 90% delle filiali è rimasto chiuso e a differenza dello sciopero dell’ottobre 2013, dove si erano fatti vedere perlopiù  teste canute o scarsicrinite, oggi a sfilare c’erano numerosi giovani, alcuni  con figli e passeggini al seguito.

Tutte le manifestazioni sono comunque  state unitarie: hanno infatti visto la partecipazione di tutte le sigle del credito a partire dalle confederali Fisac (il braccio bancario della Cgil), Fiba (espressione della Cisl) e Uilca (Uil). Sileoni  ha appunto in particolare condotto il corteo e il comizio di Milano, il principale come furza d’urto con 13mila presenze; il segretario della Fisac, Agostino Megale,  ha governato il delicato sit-in di Ravenna (città del presidente dell’Abi e della cassa di risparmio cittadina, Antonio Patuelli); Giulio Romani (Fiba-Cisl) ha guidato la manifestazione di Roma mentre Massimo Masi (Uilca) ha condotto il corteo di Palermo.

 


L’architettura del nuovo contratto è cruciale sia per capire come saranno strutturate le banche e le filiali del futuro dopo il tramonto della figura del cassiere (si contano decine di migliaia di addetti in potenziale esubero o comunque disintermediati dalle piattaforme di internet banking) sia nella più ampia battaglia tra le forze sociali e Confindustria. Perché se cadrà il caposaldo del contratto nazionale in un settore storicamente sindacalizzato (e strutturato) come quello bancario, a quel punto diventerà più semplice smantellare o depotenziare anche gli accordi degli altri comparti industriali. In sostanza sarebbe campo libero agli accordi aziendali, un po’ quello che ha fatto la Fca di Sergio Marchionne che da qualche anno è uscita dall’Associazione di viale Dell’Astronomia presieduta da Giorgio Squinzi, disdettando gli accordi collettivi. In sostanza, oltre al mestiere del bancario,  è in gioco lo stesso peso politico e ruolo dei sindacati.

Sileoni ha paventato anche il rischio che Unicredit – che sta tenendo una posizione intransigente al tavolo negoziale sul contratto – mediti di lasciare l’Abi. Il prossimo comitato direttivo di Palazzo Altieri  sarebbe in agenda il 4-5 febbraio.

 

Ad aggiungere benzina sul fuoco è stato poi il golpe ordito da Matteo Renzi con  il decreto legge che scardina le prime dieci banche popolari italiane, trasformandole a forza in società per azioni: le mutue sono da sempre territorio dei dipendenti-soci e dei sindacati.
«L’Abi si comporta come Ponzio Pilato: non affronta i problemi e se ne lava le mani. Manca una visione politica e strategica per trovare le soluzioni che il settore bancario richiede. La politica del no, attuata fino a oggi, produrrà nuovi scioperi e nuove manifestazioni, se entro due settimane banche non cambieranno radicalmente atteggiamento», ha detto il leader della Fabi che ieri ha tenuto il comizio conclusivo a Milano insieme a Susanna Camusso. «Ha scioperato oltre il 90% della categoria e oltre il 95% degli sportelli è rimasto chiuso», ha aggiunto Sileoni ribadendo che se le banche non cambieranno registro al tavolo negoziale,  entro due settimane i sindacati proclameranno altre iniziative di lotta e di mobilitazione. Il leader della Fabi reclama inoltre dalle banche «chiarezza e trasparenza» sui costi delle sponsorizzazioni, delle consulenze informatiche, sulla gestione e compravendita degli immobili di proprietà e sui contratti in essere con società in appalto. E quindi di rendere pubblici i nomi di tutti quei professionisti e quelle aziende che «hanno contratti superiori ai 100mila euro annui, senza nascondersi dietro le previsioni della legge sulla privacy».

 

Se l’Abi continua così bisogna decidere come coinvolgere il governo e noi come Cgil, Cisl e Uil lo faremo, senza divisioni. Siamo in piazza, siamo tanti e ci torneremo perché il contratto è il nostro obiettivo», ha insistito la lady di ferro della Cgil per poi chiedere a Renzi di rinunciare al colpo di mano sulle popolari: «Penso che per il bene del Paese sia bene che si cambi questo decreto». «Se le banche non tornano a fare il loro mestiere e cioè a dare credito noi da questa crisi non usciamo più».  Sulla stessa linea a Roma il segretario della Cisl, Annamaria Furlan: «L’Abi non faccia orecchie da mercante e riapra subito il dialogo coi sindacati» dei risparmiatori e dell’intero sistema produttivo italiano. Così come minaccia lotte crescenti il capo della Uil, Carmelo Barbagallo.

 

 

 

 

Non per nulla questa mattina in piazza i motti,  stampati su migliaia di magliette appositamente distribuite e indossate dai manifestanti, erano: “Io non sono un banchiere”  e “Io sono un bancario al servizio del Paese” (Street ha seguito il corteo  e ha scattato la quasi totalità  delle immagini del post con il suo iPhone). Decriptato il messaggio dei sindacati significa:  gli addetti del credito – dal giovane cassiere al commesso prossimo alla pensione fino al direttore di filiale e agli altri quadri direttivi – hanno poco a che spartire con i banchieri che invece le governano e incassano lauti superbonus su cui ha avviato una indagine stessa Banca centrale europea  di Mario Draghi. Tutto questo malgrado, insistono i sindacati, sovente le banche prestino soldi soprattutto ai grandi gruppi di potere che non a famiglie e piccole imprese, lasciandole così vittima del credit crunch: ora nei bilanci delle banche ci sono  180 miliardi di crediti in sofferenza, cioè inesigibili. Alcuni manifestanti erano vestiti, come uomini sandwich, dagli assegni milionari riscossi da alcuni top banker come buonuscita o premio; altri lungo il corteo raccontavano le loro storie di 30 anni in banca, di come hanno visto cambiare il lavoro allo sportello, delle pressioni commerciali che ricevono dall’alto per centrare gli obiettivi di business; sostengono che la busta paga a fine mese di rado si scosta dai 2mila euro, benchè siano a fine carriera, debbano lavorare anche al sabato e se non ci fosse stata la riforma Fornero avrebbero potuto aspirare alla pensione. Fino a qualche cartello goliardico che paragonava i vertici delle principali banche italiane ai “Pirati dei Car-Abi”.

Per trovare un accordo con l’Abi – che ha affidato la conduzione delle trattative al presidente del Monte Paschi, Alessandro Profumo – c’è tempo due mesi: il 31 marzo è infatti il termine ultimo fino al quale l’Abi, che ha disdettato il contratto, si è resa comunque disponibile ad  applicarlo.  Oltre tale data – ha scritto Palazzo Altieri in risposta allo sciopero nazionale – «è prevista inevitabilmente la disapplicazione del contratto, non giustificandosi più un confronto eccessivamente prolungato ad ogni costo». L’associazione di Palazzo Altieri  ribadisce poi «nuovamente la volontà di arrivare ad un rinnovo» del contratto «che possa conciliare le esigenze di recupero di redditività e produttività con le esigenze occupazionali e di tutela dei salari dall’inflazione». Una timidissima apertura.

 

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