Richard Thaler

Navigando per il web (trawling the Internet, direbbero gli inglesi) mi sono imbattuto in una notizia che, per motivi personali, mi era sfuggita anche se di notevole rilevanza: il premio Nobel 2017 per l’economia è stato assegnato a Richard Thaler dell’Università di Chicago. È un riconoscimento a uno studioso eterodosso nel tempio del liberalismo economico. Thaler è, infatti, un discepolo del Nobel 2002, Daniel Kahneman, pioniere della finanza comportamentale.

Devo ammettere una doppia ignoranza. Da filosofo pensavo che le teorie di John Watson, fondatore del comportamentismo, fossero confinate nella ridotta della pedagogia o, tutt’al più, del marketing. Lo psicologo statunitense (anch’egli docente a Chicago), infatti, sosteneva che l’unico dato misurabile della nostra psiche fosse il comportamento definito in base agli stimoli dell’ambiente. Una prospettiva diametralmente opposta quella freudiana secondo cui è l’inconscio il vero regolatore delle nostre azioni tant’è che i comportamentisti sono i veri avversari dell’introspezione. Secondo Watson, infatti, è sufficiente erogare stimoli appropriati per ottenere risposte soddisfacenti. Tale procedura viene definita condizionamento. Gli spot che vediamo quotidianamente in tv sono, per l’appunto, un mix di comportamentismo e di teorie psicanalitiche. Ma questo è un altro discorso.

NudgeL’opera più celebre di Thaler è Nudge, la spinta gentile. Questo pamphlet, scritto a quattro mani con il giurista Cass Sunstein (diventato poi consulente di Barack Obama), si fonda su un principio comportamentista esteso a tutte le sfere economiche della nostra vita: basta un input giusto per indurci a compiere scelte ottimali e convenienti. Tale Weltaschauung è stata sintetizzata dagli autori nella definizione «paternalismo libertario». Gli esempi più caratteristici tratti dal libello sono due. Il caso della mensa scolastica nella quale sono posti in bella vista piatti di frutta e verdura che induce gli alunni ad acquistarli al posto del solito junk food. E poi l’esempio del fondo pensione: negli Usa, a differenza dell’Italia, non esiste l’Inps e il lavoratore può scegliere liberamente se versare o no parte del proprio salario a un fondo previdenziale (il sindacato negli Usa ha come obiettivo principale l’incremento della contribuzione delle aziende ai fondi previdenziali, ma anche questo è un altro discorso). Thaler e Sunstein affermano che con il principio del silenzio-assenso (il versamento diretto dei contributi al fondo da parte dell’azienda salvo disdetta del lavoratore) i dipendenti si responsabilizzano su questo tema perché devono proprio scegliere di dire no a una pensione dignitosa quando saranno anziani.

Thaler è avversato dagli economisti neoclassici perché essi sostengono che l’individuo sia sempre in grado di scegliere ciò che sia meglio per sé in quanto il mercato, che si regola attraverso la legge della domanda e dell’offerta, altro non è che uno specchio della condizione umana. Ma anche ai keynesiani Thaler non è simpatico in quanto le sue teorie non prevedono che sia lo Stato a farsi carico di eventuali disfunzioni o crisi.

Karl_MarxA un eterodosso non si può che replicare con le parole dell’eresia. La somma eresia di Karl Marx secondo cui il capitale è esso stesso violenza in quanto mira alla sua riproduzione sussumendo il valore del lavoro. Mi perdonino i marxiani per questa volgare sintesi ma, in fondo, Thaler mira a una riproduzione ordinata dei rapporti di forza dispensando buoni consigli a poveri deficienti destinati alla perdizione (che poi sarebbe il ruolo dell’avanguardia intellettuale secondo Gramsci, ma anche questo è un altro discorso). Ma anche la piccola eresia dell’ordoliberalismo di cui abbiamo conosciuto in questi anni il volto deteriore. L’ordoliberalismo è la teoria secondo cui il mercato funziona meglio quando un attore esterno si assicura che determinate regole siano rispettate. Avete presente il deficit/Pil al 3%, il debito/Pil al 60%? Ecco, il Trattato di Maastricht e la sua vestale Angela Merkel sono ordoliberalisti.

Noi élite abbiamo rotto l’equilibrio sociale, noi cittadini osserviamo la scomparsa dell’ascensore sociale (per questo crimine, mai li perdonerò), noi classe media prendiamo atto del nostro impoverimento, noi classe povera continuiamo a subire la messa in sedazione cosciente

Questa riflessione sviluppata dall’ex manager del gruppo Fiat, Riccardo Ruggeri, su ItaliaOggi mi induce a pensare che nessuna definizione sia migliore di quella che noi diamo a noi stessi. Se Thaler si è chiamato paternalista, ha già scelto la parte dalla quale stare: quella di Metternich e di Bismarck, quella dello scambio sociale per eccellenza. Tu dai la tua vita allo Stato, all’impresa, allo Junker e costoro ti ricompenseranno con un salario giusto e con una pensione anche reversibile in caso di morte (il Sozialstaat è stato inventato in Prussia, infatti).

In questo modo tutto resta immobile e uguale a se stesso. L’esatto contrario del liberalismo che ha in sé gli opposti: il successo e il fallimento. Ecco, il paternalismo è deresponsabilizzante. Se ti comporti bene, non creerai problemi a te stesso e nemmeno agli altri. Se scegli bene le opzioni mostrandoti disponibile alle rinunce, otterrai un premio. Il paternalismo è la reazione di chi non sa accettare la libertà, la democrazia e i suoi paradossi e, soprattutto, non vuole assumersene il costo.

bancoalimentarecasapoundPerché siamo «scesi» sul piano della politica? Molto semplice. Anche la politica è scambio, ma è soprattutto scelta, razionale o inconsapevole che sia. I buoni consigli, le agende riformiste, le priorità ineludibili sono difficili da accettare per quanto fondati economicamente. Non è un caso che i temi populisti piacciano (pensate al reddito di cittadinanza del M5S o alle collette alimentari per gli italiani di Casapound) perché vellicano il piano del desiderio, del bisogno. Essi sono altrettanto deresponsabilizzanti perché frutto di quella deresponsabilizzazione paternalistica. La «spinta gentile» di Thaler è, in fondo, una diseducazione alla libertà, una mancata accettazione della possibilità di fallire insita in tutti i processi democratici, un’avversione per la nostra stessa umanità.

Gian Maria De Francesco per Wall & Street

 

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