Non so quanti di voi lo facciano. Io non riesco a farne a meno. Quando entro in un grande magazzino o in un grande supermercato (di quelli che hanno anche reparti di cartoleria, giochi, elettronica, etc) non posso fare a meno di buttare un occhio sul reparto dei libri. So che verrò puntualmente deluso. Non ci sono libri che mi possano far gola. Di solito si tratta di editoria mainstream, tascabili “scolastici” (immancabili Primo Levi e Calvino), qualche classico (Dostoesvksij sì, Balzac – chissà perché – no), thriller, e libri per ragazzi (saghe fantasy o robe del genere). Talvolta trovi degli Adelphi e persino dei Sellerio, ma anche in questo caso si tratta di titoli che si potrebbero definire “di largo consumo”.
La “sorpresa” per il lettore forte non arriva mai. Mai dire mai, però. E la settimana scorsa mi sono imbattuto, mentre facevo la spesa, in un titolo decisamente fuori moda ma importante, almeno per la storia della nostra letteratura novecentesca. Garzanti ha infatti ripubblicato Donnarumma all’assalto di Ottiero Ottieri (con prefazione di Giuseppe Montesano). Ovviamente non stiamo parlando di calcio e il signor Donnarumma non ha niente a che fare con il portiere del Milan. Insomma, ho trovato uno di quei capolavori degli anni del Boom economico, considerato tra i precursori di quella letteratura industriale che ha avuto poi in Paolo Volponi il suo massimo artefice.
Il romanzo, scritto alla fine degli anni Cinquanta e pubblicato per la prima volta da Bompiani nel 1959, racconta l’esperienza di un giovane e motivato direttore del personale alle prese con l’apertura di uno stabilimento industriale nell’area depressa del napoletano, proprio a ridosso del mare. Ottieri e il suo narratore e protagonista non hanno fatto percorsi tanto dissimili. L’autore toscano, infatti, è stato a lungo dirigente nell’azienda di Adriano Olivetti. E proprio a Ottieri fu affidato il compito di gestire le assunzioni nello stabilimento di Pozzuoli. Il romanzo, insomma, espone in maniera lucida e disincantata quanto è avvenuto personalmente all’autore, filtrando però il racconto con un occhio letterario, che va in profondità deformando il testo allo scopo di rendere il messaggio stesso più efficace.
In pieno boom economico l’industrializzazione del Paese marcia a tappe forzate e il Sud diventa una copia “non conforme” di quanto avviene al Nord. E l’immaginario paesino di Santa Maria si ritrova a essere l’epicentro di una zona industriale così descritta: “In questa zona industriale, l’industria vive arroccata, goccia nel mare o nella sabbia di una civiltà di pescatori senza barca e di contadini senza terra. Nessun tessuto lega una fabbrica all’altra, non c’è proletariato. La disoccupazione non unisce, ma sempre divide, tranne quando esplode”.
Il protagonista deve mediare tra esigenze di produttività secondo modelli, se non internazionali almeno settentrionali, e una popolazione – quella meridionale – che deve fare i conti con un ambiente “economico” decisamente ostile. Il dirigente aziendale quindi si trova sempre più invischiato con questo nuovo ruolo di esploratore di una condizione umana affatto differente. Per questa ragione Montesano parla di Ottieri come di un “antropologo dell’essere meridionale”. E tale sembra ad esempio là dove il narratore spiega: “L’uomo meridionale non è diverso dagli latri, ma è un uomo deformato. Le avventure della sua vita, la storia, lo peggiorano e lo esaltano fuori da comuni leggi. Ricchi e poveri, niente qui, nessuno scoglio, un appiglio, emerge, e tutti nuotano sotto il livello della coscienza collettiva”.
Il romanzo sfrutta quasi la stessa struttura narrativa del Deserto dei tartari. L’azione è sospesa. Il mondo della fabbrica lo si vede soltanto di riflesso. Qui a dominare è l’attesa vissuta da chi nella fabbrica vuole entrare e affolla a questo scopo la portineria dello stabilimento. Senza ovviamente mai chiedersi cosa poter fare e come essere “produttivi”, ma semplicemente sperando di ottenere un posto di lavoro. Perché, alla fine, la disoccupazione dilagante (soprattutto in un’epoca come quella in cui il Paese usciva da una civiltà contadini per entrare senza soluzione di continuità in un’era industriale) lì è più di una piaga. E’ una condizione radicata. “Da una parte – osserva il dirigente chiamato appunto a selezionare il personale – hanno una smania di lavorare che li sprona e li acceca e una abitudine fissa, antica, di cercare lavoro più che di lavorare; dall’altra parte una abitudine alla disoccupazione così profonda che ha generato i suoi vizi e le sue difese naturali”.
Un romanzo, quello di Ottieri, che rimane attuale. Straordinariamente efficace come affresco del mondo industriale. Chissà se si troverà qualcuno che abbia la stessa capacità per raccontare il mondo di oggi, tra occupazione “fluida” e nuovi mestieri.

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