Anche i classici sono un prodotto da maneggiare con cautela. Sono un prodotto sicuro. Qualità (alta) certificata. Bisogna tuttavia non rimanerci incastrati dentro come accade al protagonista dell’ultimo romanzo di Alessandro Piperno Di chi è la colpa (Mondadori). L’autore usa il facile ma efficace espediente di un’educazione sentimentale e del più classico romanzo di formazione per metterci in guardia dalle trappole che sono disseminate un po’ dovunque nella vasta prateria rappresentata dalla letteratura. C’è questo ragazzino debole e insicuro cui la vita ha regalato un padre spensierato e privo risorse e una madre austera e solida. Lui è affascinato dal primo ma attratto dall’enigma rappresentato dalla seconda. Solo alle soglie della pubertà, infatti, scopre la famiglia di lei. E non solo. Scopre che appartiene alla ricca borghesia romana. Ed è di religione ebraica.

Da qui il primo dei fili di cui è intessuto questo variopinto arazzo: il più classico dei romanzi familiari dove la pecora nera si allontana perché ha scelto una via non consona alle rigide regole dei suoi avi. Lei, la irreprensibile e grigia professoressa di matematica, ha infatti scelto un goy, per giunta spiantato e senza né arte né parte. E la tragedia è solo dietro la porta. Ed è lo stesso Piperno ad avvertirci: “La mestizia di una famiglia disfunzionale pronta a essere travolta”. Una famiglia che scompare in pochi minuti di una afosa notte agostana. Una tragedia avvolta nella foschia di un ricordo impossibile da mettere a fuoco. “Per anni mi sono arrovellato – dice il giovane protagonista – su cosa fosse peggio: essere figlio di una suicida o di un assassino? Il più insolubile dei dilemmi. Il più straziante che un figlio possa concepire e sostenere”. E questi interrogativi vengono sopiti e neutralizzati lungo gran parte del racconto perché il nostro cambia vita. Viene adottato dal prozio ricco e famoso, lasciando la periferia anonima per un grande appartamento di lusso in via Giulia.

Altra filo, altra trama. “Le nuove generalità mi trasformarono dalla mattina alla sera nell’eroe di un romanzo vittoriano, e quindi nel più losco degli impostori”. E qui che incontriamo il primo dei due classici che fanno da controcanto alla storia del giovane aspirante scrittore. La cugina, bella e sensibile, ha un livre de chevet da cui non si separa mai. È l’ultimo romanzo di George Eliot. Quel Daniel Deronda, ambientato nella buona società londinese di epoca vittoriana con la più insolita delle agnizioni per il giovane protagonista. E lo consiglia al nostro che da allora inizierà a baloccarsi all’dea di diventare scrittore, trasformando frustrazioni, paure e desideri negli elementi di un romanzo.

Piperno è abilissimo a tenere il lettore attento e agganciato alla storia. Senza rinunciare a quei giochi metaletterari che con Philip Roth hanno virato verso l’autocompiacimento e l’autocommiserazione più spinta. Ed è proprio quando la tensione emotiva del nostro è salita fin quasi all’acme che arriva la prima resa dei conti.  Il fantasma shakespeariano della madre lo accusa di vittimismo incongruo e gli lascia come lascito il consiglio di non cadere nell’errore che nel quale cadono in tanti: “Non chiederti di chi è la colpa? Come se tutto ciò che non va, che non funziona nelle loro vite, tutto il dolore dovesse per forza avere un responsabile che li trascende. Mai che si dicano: forse è colpa mia. O ancora meglio: forse non è colpa di nessuno”.

Primo stop e prima frustrazione per l’aspirante scrittore. Ora come dipanerà le storie? Come distribuirà pene e responsabilità, come nel più vieto romanzo vittoriano? Il carico da undici lo getta sulle spalle dell’ormai maturo scrittore la stessa amatissima cugina quarant’anni dopo. Non sveleremo la natura di questa “mazzata” che in fondo è l’agnizione finale di un bel romanzo dalla trama molto avvincente. Possiamo fornire soltanto un enigmatico indizio. Ha a che fare con il secondo classico. Quell’Educazione sentimentale con cui Gustave Flaubert traccia destino e carriera di Frédéric Moreau. “Troppe parole forbite, ragazzo mio, e non abbastanza verità. Per non dire dell’autocommiserazione” lo ammonisce la cugina quando ripensa alla carriera del congiunto ormai scrittore arrivato. E poi si chiede gli chiede: “Come si rimane incastrati nelle pagine dell’Educazione sentimentale?” Ecco questo ottimo romanzo è in fondo una sorta di “bugiardino” di due farmaci miracolosi. Che vanno sicuramente assunti per sentirsi meglio ma senza sottovalutare gli effetti collaterali dell’autocompiacimento e della inutile ricerca (nella vita reale) di colpe e responsabilità da affibbiare agli altri.

 

Ps

Il piccolo monologo del fantasma materno andrebbe inserito nelle antologie della nostra contemporaneità come monito contro chi si fa abbindolare dalla necessità di vedere dietro ogni manifestazione del reale una trama oscura e burattinai senza scrupoli. Ogni riferimento ai no-vax è tutt’altro che casuale.

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