Montanelli, quanto ci manchi
Pare di vederlo ancora, con gli occhi sgranati e le sopracciglia aggrottate che guarda dritto verso i suoi lettori (come in quella bella foto di Guido Harari del 1998), quasi a rimproverarli, un po’ contrariato con se stesso per essersi congedato dal suo pubblico così presto, a soli 92 anni, e un po’ arrabbiato con loro per aver cercato subito di rimpiazzarlo. Quegli occhi, da qualche punto del cielo, stanno guardando in basso, preoccupati.
Lui che amava così tanto i suoi lettori, che considerava come unici padroni, che quasi venerava, non potrebbe sopportare il fatto che nelle sue stanze ci possa essere entrato qualcun altro a dialogare con loro. E, infatti, nessuno ci è riuscito.
Sono già tredici anni che Indro Montanelli (nella foto) non c’è più. Tredici anni che il giornalismo italiano è monco, senza più una voce di riferimento alla quale rivolgersi quando non si sa più che direzione prendere.
Sono successe tante cose in tredici anni, e Indro non c’è stato e non ha potuto raccontare, commentare, come solo lui sapeva fare, questo nuovo folle mondo. Chissà se si sarebbe divertito a farlo? Chissà cosa avrebbe detto e scritto? E’ questo che, a distanza di oltre due lustri, ancora oggi tutti si chiedono. E’ questo che manca più di lui. Montanelli è stato il maestro delle parole da non usare, dei libri da non scrivere, dei commenti crudeli da non fare, della gente da non frequentare, delle tentazioni cui saper resistere. Dunque, forse è andato via al momento giusto, in tempo per non vedere altro orrore, e su questo va rassicurato: non c’è stato ancora nessuno in grado di rimpiazzarlo. Senza di lui il giornalismo italiano è da tredici anni più scialbo. Orfano di un padre che lo ha coccolato per 70 anni.
Indro Montanelli è morto in una calda domenica d’estate del 2001, mentre per le strade di Genova imperversava la guerriglia del G8. Lui, che nel corso della sua lunga vita si è trovato di fronte alla Signora con la falce almeno tre volte, aveva cercato di familiarizzare anche con la morte, le dava del tu. “Invidio coloro che temono l’Inferno. Io non temo nulla. E per questo ho tanta paura. Credo in Qualcuno. Non credo che saprò mai, né da vivo né da morto, chi è e com’è fatto”. E ancora: “I funerali li vorrei sempre di notte, compreso il mio”.
Nell’ultimo giorno prima di andarsene, quasi l’avesse deciso lui stesso, si è preso gioco anche di Lei, facendo ai suoi lettori un ultimo bellissimo regalo: un necrologio scritto di suo pugno. Un gesto di rispetto e di amore per ringraziare tutti coloro che in settant’anni di giornalismo lo hanno apprezzato e seguito. Non lo diceva tanto per dire: riteneva davvero i lettori gli unici ai quali i giornalisti dovrebbero dare ascolto. Diceva sempre che con i lettori “ci andava a letto”. I suoi appartenevano a una sorta di club privè, rinchiusi in quelle “Stanze” che per anni hanno accolto le loro voci, i commenti e le incazzature di tutti gli italiani. “Io vivo di lettori, i lettori non m’impongono altra servitù che la sincerità: l’unica che non pesi”.
Montanelli, tredici anni dopo, ha ancora meno voglia di dimostrare che ha sempre avuto ragione. Anche perché non amava elogiarsi nemmeno da vivo, figuriamoci da morto. Stasera al teatro Manzoni di Milano si festeggerà l’anniversario dei 40 anni dalla fondazione del Giornale. Il primo numero uscì, infatti, proprio il 25 giugno 1974, un martedì. E da allora Indro lo diresse per 20 anni, fino al 10 gennaio 1994. Ci saranno tutti i direttori che hanno guidato la testata dopo di lui: Vittorio Feltri, l’amico di sempre Mario Cervi (93 anni), Maurizio Belpietro, Mario Giordano e Alessandro Sallusti.
Una festa, ma senza Montanelli. “La mia eredità? Sono io! Io appartengo solo a me stesso”, gli piaceva dire. E’ vero, la sensazione oggi, frugando nei suoi cassetti, sfogliando i suoi diari, curiosando fra le sue carte, leggendo i suoi libri e articoli, è che sia ancora qui, a discernere su tutto e su tutti, a ballettare con le sue gambette secche sotto la scrivania, mentre pesta sui tasti della Lettera 22.
“Non beatificatemi troppo, perché non riuscirete a pareggiare il conto”. Diceva di avere una sola preoccupazione da morto: quella di non diventare un monumento, “fra le altre cose perché i monumenti sono troppo frequentati dai piccioni”. Accontentato. Come Montanelli, nessuno mai.