Psicofarmaci? No, grazie.
Milano, 23 ottobre 2013.
Ultimamente il mercoledì piovoso è un classico. Da sempre adoro la pioggia, indipendentemente dalla situazione in cui mi trovo: in macchina, in studio, a casa, a piedi. Unica eccezione: la tangenziale di Milano.
Emma è riuscita a non affogare nonostante il diluvio, naufragando nel mio studio più in ritardo di me. Bella giornata per iniziare la psicoterapia, avrà di certo pensato.
Non passano cinque minuti, quando comincia a piovere anche sul volto di Emma.
Lacrime.
Tra un singhiozzo e l’altro mi racconta: la laurea in ingegneria, i problemi col padre, i problemi con la madre, i problemi col fidanzato, i problemi sul lavoro. Aspetto la ciliegina, che non tarda:
“Mi tocca pure andare dallo Psicologo…”
Lacrime.
Racconta che per lei trovarsi lì significa sconfitta. Ammette di essere stata spinta dalla madre, stufa di vederla in quello stato ma soprattutto terrorizzata da una frase scagliata improvvisamente dalla figlia durante un litigio: se sparissi da questa Terra sarebbe meglio.
Piove ancora sul viso di Emma.
Provo a spiegarle che quando si sta male è umano e frequente pensare alla morte come ad una possibile soluzione. Probabilmente ognuno di noi in certi momenti della vita ci ha pensato. Si chiama ideazione suicidaria, e indica che l’umore è molto basso. Tento di chiarire il significato del termine depressione usando l’esempio della caldaia, mentre Emma sembra mi guardi con la faccia tipica del Ma questo è proprio idiota. Accipicchia: meglio non scherzare con l’ingegnera, penso cercando di assumere il tono più professionale di cui sono capace.
Andiamo avanti.
Il sonno? Da schifo. L’appetito? Idem. E così via, fino quasi al termine del colloquio. A questo punto le descrivo come funziona la psicoterapia: i colloqui settimanali, gli homeworks, il diario delle sedute, gli obiettivi, il costo, tutto insomma. Lascio per ultima la parte più delicata: con un umore così basso sarebbe indicata la consulenza psichiatrica, per impostare un supporto farmacologico.
“Psicofarmaci? No, grazie!”
In questi anni ho visto molte facce-Emma a questo punto del colloquio. L’espressione è sempre la stessa, così come i dubbi. Perché dovrei prendere una medicina per stare meglio? Non ce la posso fare senza farmaco? E se poi mi rimbambisce? E se non ne posso più fare a meno?
“La resistenza in questi casi è legata a tutta una serie di falsi miti attorno al mondo degli psicofarmaci e della psichiatria in generale” spiego ad Emma. “Le va di analizzarli insieme a me?”
Occhi bassi di Emma. Finite le lacrime. La prendo come un SI.
Mito 1: gli psicofarmaci ti rimbambiscono.
Fatto: generalmente l’obiettivo del supporto farmacologico è quello di sostenere la persona durante la cura, non quello di sedarla. La sedazione, tipica di una psichiatria vecchio stampo, viene utilizzata il meno possibile e comunque solo nei casi più gravi. Eppure molti di noi hanno visto persone annebbiate dai farmaci. Questo nella maggior parte dei casi avviene per colpa della auto-terapia.
Facciamo un esempio. Lo psichiatra mi ha prescritto un ansiolitico, ma non sembra fare effetto visto che mi sento molto agitato. Provo a modificare la dose. Altro esempio: mi sembra che questo farmaco non sia sufficiente a farmi passare la tristezza. Proviamo ad aggiungere anche quello che prende mia madre. L’auto-terapia illude il paziente fino a fargli letteralmente perdere il controllo sui dosaggi. A questo punto subentra anche l’imbarazzo: difficile chiamare lo psichiatra e ammettere di non aver seguito le sue indicazioni. Meglio arrangiarsi. E così via, anche per anni. Il paziente che chiamo Il chirurgo si trova in questa condizione, con l’aggravante, essendo medico, dell’auto-prescrizione.
Mito 2: non potrò più farne a meno.
Fatto: tranne in alcuni casi, i farmaci di oggi non predispongono particolarmente al rischio di sviluppare una dipendenza biologica. Le cose cambiano quando il paziente sviluppa una dipendenza psicologica, grazie soprattutto all’auto-terapia. Tra gli obiettivi che mi pongo lavorando con i pazienti c’è soprattutto quello di aiutarli a gestire, insieme allo psichiatra, la farmacoterapia, con l’idea di poter arrivare a sospenderli il prima possibile.
Mito 3: lo psicofarmaco risolve i problemi al posto mio.
Fatto: lo psicofarmaco risolve UN problema, legato al tono dell’umore. Poi paziente e psicoterapeuta si occupano del resto. Risolvere tutti i problemi “ubriachi” di emozioni negative, attanagliati nella morsa dolorosa della depressione, è molto più complicato, e i tempi si allungano significativamente.
Collegandomi a quest’ultimo punto cerco di trasmettere ad Emma che non ha senso considerare la psicoterapia e la farmacoterapia come un fallimento.
“Altro che fallimento, se vuole lavorare qui troverà pane per i Suoi denti” dico sorridendo.
Emma mi guarda.
Il volto nuvoloso.
Però ha smesso di piovere.