Nel riordinare le mie carte, giorni fa, mi è capitato tra le mani il rapporto sulla amministrazione statale che il grande amministrativista Massimo Severo Giannini redasse nel breve periodo in cui, presidente del Consiglio Cossiga, ricoprì la carica di Ministro della Funzione Pubblica (quello che adesso è affidato alla giovane Marianna Madia….). Il documento, datato 16 novembre 1979, si chiudeva con queste memorabili parole:”Se l’apparato burocratico vuole recuperare un minimo di efficienza, deve somigliare il più possibile a un’azienda privata”. Sono passati 36 anni, ma non mi pare che si siano fatti passi in quella direzione, ed anche la riforma portata ora avanti da Renzi è ben lontana dal seguire questo criterio.

Due sono le considerazioni di Giannini che mi hanno particolarmente colpito. Il primo è che il criterio di produttività, che ispira (o dovrebbe ispirare) da sempre  la conduzione delle imprese, è del tutto assente nella pubblica amministrazione. Ogni atto viene compiuto perché è genericamente “dovuto”, cioè previsto da leggi che spesso, a loro volta, non obbediscono ad alcun criterio logico. Nessuno bada a quanto un atto costa rispetto a quel che rende, se risponde o no a una logica, se è davvero nell’interesse generale  (o in certi casi – legittimamente – anche di un gruppo o di una categoria senza recare nocimento ad altri) o se in realtà porta soltanto danno alla società nel suo insieme. L’esempio classico sono le pratiche per recuperare, che so, 16 Euro (allora erano lire) di tasse non pagate e ne costano molti di più; ma Giannini si diffonde anche sulla emanazione a getto continuo di norme e regolamenti studiati a tavolino in scarso contatto con la realtà, di cui nessuno si è preoccupato di misurare e valutare in anticipo il reale impatto sulla società.

Il secondo elemento che emergeva dal rapporto era che i burocrati sono troppi, male distribuiti sia tra nord e sud sia tra un settore e l’altro e che comunque lavorano poco e non ci garantiscono servizi soddisfacenti. Allora, ripeto, 36 anni fa, erano quattro milioni, adesso mi pare che siano pochi di meno. Giannini stigmatizzava soprattutto la scarsissima o nulla mobilità imposta da una insensata politica sindacale, che impediva gli opportuni trasferimenti da un settore all’altro, con il risultato che alcuni uffici avevano paurosi vuoti di organico, mentre altri erano pieni di gente che passava le sue giornate a leggere il giornale (oggi giocherebbero con l’-I-pad o navigherebbero su internet). Da un rapporto parallelo del Formez, risultava che le 6 ore e 38 minuti che allora ogni addetto avrebbe dovuto lavorare mediamente al giorno si riducevano a 4 ore e 20 minuti per l’effetto di varie “attività non lavorative” (permessi, assenze, uscite abusive, soggiorni al caffè, ecc.). La conclusione – che nel suo buon senso non manca di un pizzico d’ironia – era che lo stesso risultato avrebbe potuto essere ottenuto con due terzi del personale, o a scelta, che si potrebbe produrre un terzo di lavoro in più evitando quei temi lunghissimi che tanti disagi creano ai cittadini.

Mi domando se il ministro Madia, o almeno quelli che hanno redatto per lei la riforma della burocrazia che dovrebbe essere presto sottoposta all’approvazione del Parlamento, abbiano letto le 400 pagine del rapporto. Se lo avessero fatto, sarebbero già stati a metà dell’opera, perché ho l’impressione, credo condivisa dalla maggioranza dei cittadini che nel passaggio dalla prima alla seconda e ora (così dicono) alla terza Repubblica sia cambiato ben poco. Il mostro (burocratico) è rimasto il mostro, e non so davvero se le misure attualmente allo studio, soprattutto per quanto riguarda i dirigenti, basteranno ad avvicinarlo al modello che sognava Giannini.