IL dramma della natalità
La notizia di questi giorni che più mi ha impressionato è che nel Mezzogiorno d’Italia nasce oggi lo stesso numero di bambini di 150 anni fa, ai tempi di Garibaldi, quando il numero degli abitanti era circa un terzo di quello di oggi. Sapevamo da un pezzo che il tasso di natalità dell’Italia è, con 1,35 per ogni donna fertile, uno dei più bassi del mondo, e che pertanto la popolazione autoctona del nostro Paese è destinata a diminuire drasticamente nei prossimi cinquant’anni. Sapevamo anche che l’Italia è uno dei Paesi che destina la minor percentuale di spesa pubblica al sostegno della maternità, e che questo ci penalizza nei confronti della Francia e dei Paesi nordici (dove peraltro la situazione non è molto migliore). Ma l’idea che la malattia della “denatalità” abbia colpito così brutalmente anche il Sud, dove eravamo abituati fino a non molto tempo fa a vedere famiglia di tre, quattro, cinque figli è stato egualmente uno shock.
L’unica consolazione – sempre che si possa chiamare tale – è che il fenomeno è ormai comune a tutto il mondo sviluppato: con la sola eccezione di Israele, non c’è più un solo Paese “ricco” con un tasso di fertilità del 2,1 per cento, il minimo necessario a mantenere la stabilità della popolazione. Dalla Germania al Giappone, dagli Stati Uniti alla Cina, la crisi è generale. Perfino in Turchia, dove ancora vent’anni fa il governo distribuiva preservativi gratis per contenere il numero di nuove nascite, il “Sultano Erdogan” ha lanciato un proclama per invitare le donne a restare a casa, dedicarsi alla famiglia e partorire almeno tre figli. Ovunque si sono studiati rimedi, che vanno dalle migliaia (con un aumento per ogni bambino) di Euro donati ai genitori da Singapore alle detrazioni fiscali ai sussidi per il mantenimento e l’educazione dei figli alla moltiplicazione degli asili nido. Per quanto sia difficile fare confronti, pare proprio quest’ultimo il sistema più efficace, ma non abbastanza per risolvere il problema. Il risultato, come tutti sanno, è un invecchiamenti progressivo della popolazione, con le relative conseguenze sul sistema pensionistico (dove esiste e funziona) oppure sugli equilibri familiari, come in Cina dove la generazione dei “figli unici” sconsideratamente imposta da Mao si ritroverà a mantenere i genitori senza alcun aiuto pratico.
Sulle cause del fenomeno sono stati scritti migliaia di articoli e di saggi: c’è chi attribuisce il calo della natalità al maggior impegno delle donne nel mondo del lavoro, chi alla diffusione degli anticoncezionali, chi alle tentazioni di godersi la vita oggi a disposizione delle coppie più abbienti, chi ai crescenti costi di allevare figli soprattutto nelle grandi città (si calcola che ogni figlio possa assorbire, fino a quando diventa autosufficiente, il 25-30% del reddito di una coppia del certo medio-basso). In ogni caso, pochissimi sono gli studiosi che- qualsiasi iniziativa venga presa- giudichino il fenomeno REVERSIBILE.
C’è una teoria che, a parte il problema dell’invecchiamento, giudica la prospettiva di una diminuzione della popolazione assolutamente salutare: non solo- è il lietmotif- siamo ormai troppi sulla terra, ma la rapida robotizzazione del lavoro, nelle fabbriche come nei campi, richiederà in futuro meno gente per fare funzionare una economia avanzata. Comunque, suggeriscono altri, si può sempre ricorrere alla immigrazione da quelle parti del pianeta, Africa in primo luogo, dove il tasso di fertilità è ancora di gran lunga superiore al fatidico 2,1. In Nigeria, per esempio, da cui proviene una buona percentuale dei nostri boat-people, ogni donna partorisce in media sette figli. Ma abbiamo ogni giorno sotto gli occhi i problemi politici che una invasione su vasta scala di popolazioni di civiltà diversa crea non solo in Europa, ma anche in Giappone e Corea del Sud, dove si è sempre cercato, storicamente, di difendere l’omogeneità etnica, e negli Stati Uniti dove c’è una fortissima resistenza alla invasione di “latinos”, specie dai Paesi meno sviluppati del continente. Soprattutto, ma non solo, nei partiti populisti, è diffuso il timore che l’immissione in massa di individui provenienti da Paesi con una civiltà e un tasso di sviluppo inferiori finisca con l’avere un impatto negativo sulla nostra struttura sociale.
Per riassumere, il caso del nostro Sud è solo un frammento di un fenomeno infinitamente più vasto, che, nel giro di alcune generazioni, potrebbe letteralmente cambiare la faccia della terra.