Qualcosa non torna nella fine di Regeni
La maggior parte dei media, soprattutto se orientati a sinistra, tende ad accusare la polizia, o i servizi segreti egiziani della tragica fine del ricercatore italiano Giulio Regeni. La tesi ha una sua logica: il giovane, oltre a preparare la tesi per il suo dottorato, era attivamente coinvolto con la resistenza al regime del presidente Al Sisi, aveva contatti con personaggi entrati e usciti dalle prigioni e, pur non essendo accreditato come giornalista con le autorità (cosa che gli avrebbe garantito un minimo di tutela) scriveva articoli contro il governo per “Il Manifesto” e una agenzia on-line vicina ai Fratelli Musulmani. Inoltre, sembra che sul suo cellulare avesse nomi e recapiti di varie persone legate alla resistenza con cui era entrato in contatto nel corso delle sue ricerche. Era, cioè, un bersaglio ideale per una polizia politica tra le più brutali ed efficienti del mondo arabo, anche perché gli egiziani diffidano in modo particolare degli stranieri che si impicciano attivamente dei loro affari interni.
C’è tuttavia qualcosa che non quadra in questa ipotesi che, sia pure con molta cautela (vedi l’intervista al Corriere dell’ambasciatore Massari) sembra condivisa anche dalle nostre autorità. Che interesse avevano le autorità egiziane ad arrestare, torturare e fare ritrovare il cadavere di un giovane italiano proprio nel momento in cui si trovava al Cairo una delegazione di 60 imprenditori capeggiati dalla ministra Guidi con l’obbiettivo di investire nel Paese e migliorare gli scambi commerciali? E, forse ancora più importante, nel momento in cui l’Occidente si prepara, in collaborazione con l’Egitto, a tentare di cacciare l’ISIS dalla vicina Libia? E’ possibile, naturalmente, che nella circostanza una branca dei servizi abbia agito di propria iniziativa, tenendo all’oscuro i vertici del Paese. E’ accaduto, e continua ad accadere, in Paesi ben più progrediti ed avanzati dell’Egitto. Ma se anche fosse così, che senso aveva “scoprire” il cadavere martoriato del giovane in un momento tanto delicato, quando sarebbe stato semplicissimo farlo sparire per sempre sotto le sabbie del deserto?
Ma se a compiere il delitto non sono stati poliziotti stupidi o troppo zelanti, chi può essere stato? Un sospetto è legittimo: nemici di Al Sisi, che vogliono screditarlo agli occhi dell’Occidente per prepararne eventualmente la caduta. Per i tanti avversari del regime, questo tragico episodio può essere di grande utilità. Perciò, dobbiamo stare attenti a non cadere nella (eventuale) trappola. Dobbiamo cioè evitare che il brutale assassinio di un giovane senz’altro generoso e intelligente, ma che forse nella sua attività è andato un po’ più in là di quanto dovrebbe fare uno straniero in un Paese difficile e diffidente come l’Egitto, comprometta un rapporto che per l’Italia è molto importante. Non lasciamoci cioè governare dall’emozione, aspettiamo che l’inchiesta – cui del resto partecipano anche nostri funzionari, faccia il suo corso e non prendiamo decisioni affrettate. A meno (e sembra improbabile) che vengano accertate precise responsabilità dei vertici governativi, la nostra politica estera non deve cambiare per questo.