Pochi sembrano essersene accorti, ma da ormai un po’ di tempo lo spread dei bonos, i poco ambiti buoni del tesoro spagnoli, è molto inferiore a quello dei nostri BOT a dieci anni. Oggi,27 settembre, alle ore 1500, i numeri erano rispettivamente 108,20 e 139,60, una differenza di ben trenta punti a favore dei titoli spagnoli che, a mia memoria, non si registrava da anni. Al contrario, fino a qualche tempo fa, perfino nei momenti peggiori della crisi, il mercato considerava i nostri buoni del tesoro meno a rischio di quelli iberici. La cosa paradossale è che il sorpasso è avvenuto mentre la Spagna è, ormai da dieci mesi, senza un governo nei suoi pieni poteri, perché due elezioni nel giro di sei mesi non hanno dato vita alle Cortes a una coalizione che permettesse al premier popolare Rajoy, che ha la maggioranza relativa dei deputati, di dar vita a un nuovo esecutivo; e la situazione rimane tuttora talmente bloccata, che c’è il rischio che gli spagnoli debbano recarsi alle urne per la terza volta in un anno proprio il giorno di Natale. Nello stesso periodo, invece, noi abbiamo avuto un governo almeno apparentemente solido e stabile che si vanta, un giorno sì e un altro anche, di avere realizzato riforme rivoluzionarie, di avere rimesso in moto l’economia, di avere fatto di nuovo dell’Italia un Paese che conta, e che ultimamente, nonostante la cronica debolezza dei nostri conti, si vanta anche di avere lanciato con successo un’offensiva contro l’Europa a trazione tedesca.
Con queste promesse, sarebbe stato logico se la Spagna fosse entrata in crisi e noi ne fossimo usciti a bandiere spiegate. Invece, è successo esattamente il contrario. Il PIL della Spagna senza governo è cresciuto di ben 3 punti, cioè quattro volte quello italiano e il doppio delle media europea. Per quanto il Paese sia ben lontano dall’avere risolto i suoi problemi, le riforme VERE fatte dal governo Rajoy prima della crisi – soprattutto una seria liberalizzazione del mercato del lavoro – hanno prodotto i loro primi benefici effetti anche in assenza di un esecutivo, facendo scendere il numero dei disoccupati, aumentare gli investimenti e rendendo la macchina dello Stato più agile. In Italia, invece, molte riforme sono state annunciate, ma non ancora applicate o neppure entrate in vigore. Perfino il decantato Jobs act, fiore all’occhiello del governo Renzi, ha funzionato solo finchè il governo se ne è assunto i costi e sembra già avere esaurito il suo impatto. Quanto a riduzione della spesa pubblica, snellimento della burocrazia e riforma giudiziaria, siamo ancora più o meno alla casella zero. UNA VOLTA FATTO QUESTO RAFFRONTO, I MERCATI NON POTEVANO CHE PRENDERNE ATTO.
Molti si sono scandalizzati quando l’ambasciatore americano Johnson ha sostenuto che una vittoria dei no ai prossimo referendum avrebbe ulteriormente ridotto gli investimenti stranieri e la fiducia della comunità internazionale nella nostra capacità di rinnovarci. La sua è stata indubbiamente una invasione di campo, una plateale violazione
del protocollo diplomatico. Ma, nella sostanza, aveva ragione. Fino a quando non ci diamo una mossa e continuiamo a perdere terreno nelle due “classifiche” che contano di più, quella della produttività e quella della facilità a fare impresa, e invece di chiedere sempre più flessibilità a Bruxelles ci decideremo a ridurre il debito pubblico,i proclami di Renzi non serviranno a nulla e il distacco tra lo spread dei BOT e quello dei bonos rischia di aumentare ulteriormente.

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