Sarà come dice Michele Santoro, che “i talk show sono un genere eterno” (Corriere della Sera del 18 settembre ); ma quanto hanno stufato. Il talk show è un genere che viene da lontano, dalla televisione di Maurizio Costanzo per intenderci. E, a ben guardare, anche Santoro è un po’ figlio di quel ceppo, avendo condiviso con Costanzo staffette e programmi vari. Non a caso distribuisce caustiche pagelle ai conduttori di seconda generazione, Porro e Telese in primis. A venir da vicino, invece, è la proliferazione esasperata, talk show a tutte le ore e su tutte le reti. Perché costano poco. Si chiamano gli ospiti, si gestiscono secondo una drammaturgia nota, si fanno parlare, meglio, per l’audience, se litigare. In questo senso l’esplosione dei talk è figlia della crisi economica. Della necessità di fare televisione con pochi euro (già costano parecchio i conduttori). Ma i talk show sono figli di quest’epoca anche nel senso che sono esito di una società parolaia, tutta costruita sulla dialettica, sulla capacità di “funzionare” davanti alla telecamera. Abbiamo infiniti esempi in materia. Ha scritto e detto Aldo Grasso che proprio la ripetizione del rito dei talk show, sempre con le stesse persone e gli stessi ospiti, è una spia della crisi del nostro Paese, della nostra società dello spettacolo . Non so se sia esattamente così. So che si diffonde un senso di saturazione e quasi di rigetto nel pubblico. Lo mostrano i dati degli ascolti, in calo un po’ per tutti. E lo ha mostrato, qualche mese fa, il plauso con cui vennero accolti i duelli elettorali, con tempi contingentati per le risposte dei vari leader, un metodo che dava un senso di maggior concretezza alla discussione e di maggior rispetto del telespettatore.
Ora, essendo troppi i talk show si cannibalizzano a vicenda. Ma, per conto mio, a meno che non entrino in campo i big assoluti creando un evento politico-mediatico, il genere comincia a mostrare la corda. Ho la sensazione netta che proprio in un momento di crisi, economica e culturale come quella che attraversiamo, una tv di parole, in buona sostanza, una tv di chiacchiere, non basti più. “Fatti, non parole”, diceva un vecchio slogan pubblicitario. E oggi c’è proprio un disperato bisogno di fatti. La Mostra del cinema di Venezia di quest’anno non è stata un granché. Tuttavia qualche piccola chicca l’ha lasciata in eredità. Tra le altre, una frase che, a mio avviso, è una sentenza anche sulla nostra televisione. Nel film “Tracks” del regista John Curran un giovane che vive solitario nel deserto australiano dice a un certo punto: “Le parole sono sopravvalutate”. Lo fa per spiegare il comportamento silente di un anziano del luogo. Conta il modo di agire, il modo di essere, più di quello che si dice: le parole sono sopravvalutate. Pensiamo ai nostri talk show… Sempre a Venezia, quest’anno ha vinto il Leone d’oro un documentario intitolato “Sacro Gra” sulla vita quotidiana di alcune persone singolari nell’area del Grande Raccordo Anulare di Roma (da qui il titolo). Gusti cinematografici a parte, da questo fatto può derivare un secondo piccolo insegnamento: la forza del documentario, la vita quotidiana, il cinema del reale. Torniamo ai nostri talk show: se ci guardiamo dentro, le cose migliori di questi programmi sono quasi sempre i servizi filmati, le inchieste giornalistiche. Per dire, l’ultimo Piazza pulita ha lasciato il segno con i servizi sul presunto “tradimento” di alcuni esponenti del Pdl e sulla pensione d’oro di un amministratore locale di Perugia. La realtà vince sulle parole. Lo dimostra anche il successo crescente dell’inchiesta filmata alla maniera di Report di Milena Gabanelli o di Presa diretta di Riccardo Iacona. Semmai qui ci sarebbe da criticare la scelta di programmarli al lunedì, in una sera in cui l’offerta è debordante. Ma questa è un’altra faccenda. Per venire a una conclusione, sbaglierò, caro Santoro, ma io all’elogio dei talk show, ovvero, all’elogio delle parole preferisco l’elogio dei fatti.

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