Non era una giornata come le altre. Era il giorno del suo compleanno. «Sono rimasto a lungo a letto con mia moglie, più del solito». Poi i biscotti, le candeline, il caffè. «Era bellissimo». Talmente bello che quella mattina Rénald Luzier, detto Luz, il disegnatore di 43 anni che con la sua matita ha creato il Maometto dell’oltraggio firmato Charlie Hebdo, è arrivato tardi alla riunione di redazione. Minuti decisivi. Lo scarto fra la vita e la morte quel 7 gennaio in cui i fratelli Saïd e Chérif Kouachi, armati di kalashnikov, hanno aperto il fuoco nella redazione del giornale satirico, a Parigi, uccidendo 12 persone al grido «Allahu Akbar».

«Ho avuto, come dire, molta fortuna». La sintetizza così Luz, il sopravvissuto, in
un’intervista realizzata dalla tv ViceNews, la prima a parlargli dopo la strage e dopo la seconda copertina con Maometto che «perdona tutto» ma gli toglie la libertà, perché da allora Luz vive sotto scorta.«Molto bordello e persiane chiuse, ecco com’è l’appartamento di un disegnatore dopo un attentato», spiega lui. Soliti occhialoni quadrati, baffetti, sigaretta sempre in mano, riviste e dvd sparsi ovunque, Luz racconta tutto con l’amarezza e la lucidità di chi, ben prima che i riflettori del mondo si accendessero sulle vignette del suo Charlie, aveva chiaro che la posta in gioco è la libertà di espressione. «L’humour non uccide nessuno. Se prendiamo in considerazione le opinioni della terra intera, allora strappiamo i nostri disegni, è finita».
Il 7 gennaio è finita per molti dei suoi compagni di viaggio. Lui non lo ha capito finché non è salito su, al secondo piano del 10 di rue Nicolas Appert, XI arrondissement. «Quando sono arrivato mi hanno detto di non entrare perché c’erano due persone armate che erano appena salite. Poi abbiamo sentito i primi colpi di pistola». Luz risale la strada: «E vedo quei due ragazzi vestiti di nero che cominciano a puntare l’arma nella via dove mi trovavo io, senza sapere chi fossi». Ed ecco la scena agghiacciante. Per raccontarla Luz si toglie gli occhiali, inconsapevolmente, e mima ogni movimento: «Aspetto un po’, ritorno, inserisco il mio badge, la porta si apre, salgo le scale e comincio a vedere tracce di passi insanguinati. Ho capito dopo che erano le tracce di sangue dei miei amici. Ho visto che c’erano delle persone a terra, di spalle». Ora si passa le mani sul viso: «Ho visto un amico, a terra, la faccia contro il pavimento». Poi si rimette gli occhiali: «Sembra strano ma non si è preparati a una cosa del genere, non si sa come si reagirà, nessuno lo sa». L’ultimo gesto è tenersi la vita dei pantaloni: «Avevano bisogno di cinture da usare come laccio emostatico ma io non ne porto, non ne avevo. Ecco perché oggi ho una cintura».
Ieri e oggi. Prima e dopo la strage. Ecco lo spartiacque. E la riflessione: «Non siamo abituati, qui a Parigi, a questo terrore. Ma molti lo sono, in Siria, in Africa, abituati a questa pietrificazione». Non è la sola considerazione a cui Luz si abbandona. Ce ne sono parecchie sulle contraddizioni e l’ipocrisia di questa storia. A cominciare dalla grande marcia repubblicana dell’11 gennaio a Parigi. «Tutti hanno cominciato a dire “Je suis Charlie”. Ma il fatto di essere diventati un simbolo è difficile perché “Charlie” si è sempre battuto contro i simboli». «È un magazine satirico, più o meno anarchico, che ha sempre cercato, dagli anni 60, di far cadere i tabù, fare a pezzi i simboli e tutti i tipi di fanatismo». E invece a sfilare dietro Luz e gli altri sopravvissuti – un paradosso che lui chiama ovviamente «ironia» – c’è la delegazione di una monarchia che incarna l’islam più radicale: «Lo Stato saudita dice “Je suis Charlie”. No, non è Charlie. Non è Charlie mettere un blogger in carcere e frustarlo ogni settimana».
Ma il boccone più amaro arriva quando il New York Times decide di non pubblicare la copertina con Maometto «per paura di fare del male o per paura dei terroristi»: «Mi ha rattristato molto». Eppure è così che Luz ritrova l’ispirazione. «Adesso dobbiamo disegnare questo mondo bizzarro, far uscire l’emozione e disegnare gli uomini, perché questo Maometto – dice mostrando l’immagine del “suo” Profeta – è un uomo, è un personaggio». La rabbia islamica per quella rappresentazione del Profeta per lui è quasi un’invenzione: «Credo che la maggioranza dei musulmani se ne freghi di Charlie Hebdo. Penso che chi si arroga il diritto di dire che l’insieme della comunità musulmana è stata offesa è gente che prende i musulmani per imbecilli. E noi non li prendiamo per imbecilli». Di mezzo, non c’è un accanimento contro la religione: «Non sono contro la fede delle persone, ma voglio criticare i rabbini, i curati, i mullah. Persone che interpretano la fede degli altri per scopi politici e non sempre pacifici. Continuerò a farlo, voglio solo che torni l’irresponsabilità del disegno». Ed eccola tornare. L’annuncio è arrivato il 2 febbraio: Charlie sarà in edicola il 25 febbraio, dopo il numero speciale che ha venduto 7 milioni di copie. Luz si è ispirato al suo Maometto per andare avanti. «Mi sono rivolto a lui e gli ho detto: “Ti ho disegnato per la prima volta nel 2011, ci hai causato un sacco di merda”. In qualche modo è stato un reciproco perdono. “Io come creatore, sono dispiaciuto per averti causato tutto questo”. E lui come personaggio mi perdonava: “Non è grave, sei vivo e puoi continuare a disegnare”».
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