imageSpaccati gli elettori (52% pro Brexit, 48% anti-Brexit). Spaccate le generazioni (61% degli “anziani” pro-Brexit e 75% dei giovanissimi anti-Brexit). Spaccato il Paese (Scozia e Irlanda del Nord europeiste, Galles e Inghilterra anti-Ue). Spaccato il Partito Conservatore (tra no-Brexit e pro-Brexit e ora pure tra no-Boris e pro-Boris). E infine – ultimo e non meno significativo – spaccato il Partito Laburista (pro-Corbyn e anti-Corbyn).

Benvenuti nel Regno dis-Unito dove il voto del 23 giugno ha ampliato in un colpo solo tutte le lacerazioni, ha acuito le rivalità e fatto esplodere le guerre intestine finora tenute a bada da un governo centrale forte e stabile.

In molti non avrebbero mai immaginato che finisse così. Non lo aveva certo previsto il premier David Cameron, che pure sapeva di giocare d’azzardo ma che se avesse lontanamente pronosticato questo risultato non avrebbe indetto il referendum. Non lo aveva pensato davvero l’Unione europea, che se avesse intravisto la disfatta, non avrebbe fatto a Cameron quelle concessioni della vigilia utili per mettere a tacere il fronte anti-Ue. Non lo aveva previsto Boris Johnson, che all’incasso forse immaginava di arrivare dopo, da onorevole sconfitto e non da incredulo vincitore. Non lo aveva previsto il leader laburista Jeremy Corbyn, che probabilmente un po’ più di impegno in questa campagna lo avrebbe messo, magari inghiottendo pure il rospo di farsi vedere al fianco di un premier conservatore pur di portare a casa il risultato (e non a caso ora rischia il golpe). Non lo aveva previsto Nigel Farage, che sarà pure il vincitore morale di questa sfida ma il cui partito rischia di perdere la ragione sociale per cui è nato. E poi non solo non lo avevano previsto i bookmakers e i mercati ma pare nemmeno alcuni elettori inglesi, che dopo il risultato hanno cercato su Google di capire cosa sia la Ue da cui hanno deciso di staccarsi.

Nessuno se l’aspettava, eppure è accaduto. Perché succede così, o meglio può succedere, che a combattere le battaglie concentrandosi sulle lotte di medio termine, sulle scaramucce di cortile invece che su quelle che possono cambiare la Storia, la Storia arriva e impone il suo corso. Si chiama democrazia. Anche quando a decidere è una maggioranza di anziani (ma i giovani, come spesso accade nel Regno Unito, in molti casi hanno preferito stare lontani dalle urne). Si chiama democrazia, anche quando il risultato è condizionato da un discorso razzista. Si chiama democrazia, anche quando l’esito del voto non è quello che quasi la metà degli elettori avrebbe sperato.

Sarà difficile ora cambiare il corso della Storia per il Regno Unito. E chissà se basteranno i proclami di quelli che, come la leader di Scozia, vorrebbero fermare le conseguenze del referendum o di chi vorrebbe addirittura ripeterlo. Perché un voto è un voto e anche in questo caso, che piaccia o no, è stato un “gigantesco esercizio democratico”, “forse il più grande della nostra Storia” come lo ha definito il perdente Cameron.

Il Regno Unito e l’Europa hanno affrontato ben altre tempeste e ce la faranno anche stavolta, anche di fronte a un risultato che sembra dividere più che unire. Ma che ci ricorda che quando esercitiamo il voto o lo sventoliamo di fronte agli elettori sarebbe bene guardare al futuro più che al presente, alla casa che vogliamo domani più che al cortile in cui giochiamo a palla oggi.

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Vignetta di Chappatte per International New York Times

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