In difesa di Tavecchio. Quante critiche ipocrite sull’affaire banane
L’Italia perbenista e ipocrita ha trovato il suo nuovo mostro: Carlo Tavecchio, classe 1943, candidato alla presidenza della Federcalcio. Questa la frase che ha fatto innalzare i lamenti e scendere le lacrime alle prefiche del politicamente corretto: “Le questioni di accoglienza sono un conto, quelle del gioco un altro. L’Inghilterra individua dei soggetti che entrano, se hanno professionalità per farli giocare, noi invece diciamo che Opti Poba è venuto qua, che prima mangiava le banane, adesso gioca titolare nella Lazio e va bene così”. Apriti cielo: Tavecchio deve rinunciare alla corsa per la presidenza (richiesta più o meno unanime del Partito Democratico), fermatelo! (Giovanna Melandri), non ha credibilità (Davide Faraone, Pd), ha il tipico atteggiamento paternalistico nei confronti di chi si pensa inferiore e da civilizzare (Cecile Kyenge). Solo per riportare alcuni dei commenti più stizziti. Ma in rete, per fortuna, si trovano anche divertentissimi e godibilissimi fotomontaggi che ironizzano sull’infelice battuta. Perché, sia chiaro, la battuta è piuttosto infelice per una lunga serie di motivi (non fa più ridere nessuno da almeno una ventina d’anni, non era l’occasione adatta, Tavecchio non può essere così non accorto da non pensare che le sue parole possano essere usate – strumentalmente – contro di lui). Ma non è una frase che trasforma un uomo in un razzista, non è una battuta – seppur di cattivo gusto – a far cadere su una persona la mannaia di un’etichetta così odiosa. E – diciamo la verità – la sua è una frase che almeno una volta nella vita ci è capitato di sentire, e non abbiamo denunciato o preso a pugni in faccia chi l’ha proferita. Basta con questa ipocrisia e questa dittatura del politicamente corretto.
Io non so chi sia Tavecchio, non l’ho mai incontrato e non sono a conoscenza del suo curriculum vitae, magari ci sono decine di motivi per ritenerlo indegno di un ruolo così importante nel mondo dello sport, ma non questa boutade. Quelli che adesso inarcano il sopracciglio inorriditi davanti a cotanta barbarie, sono quelli che spesso trasecolano davanti alle parole, ma non muovono un dito davanti ai fatti. Questo improvvisato, ma ben nutrito, movimento No Tav(ecchio) è il solito salottino che ama indignarsi, che se dici “negro” sei un razzista da bacchettare, stigmatizzare ed emarginare, ma che poi non batte ciglio per aiutare chi è realmente in difficoltà. Sono quelli del venite tutti in Italia, del fiore dell’accoglienza e del multiculturalismo da infilare nell’occhiello della giacca in cachemire, della pelosa beneficenza da esibire e ostentare e dei viaggi in Africa a favor di telecamera (ve la ricordate quella pubblicità in cui Bono, il filantropo, atterrava, sovrastato da valigioni di Louis Vuitton, in mezzo a un prato? Ecco la scena me la immagino così). Poco importa che poi in Italia non ci siano le condizioni per poter offrire una vita decorosa a questa folla di disperati. A loro interessa solo, lustrandosi le unghie, aprire le porte di una casa che non è certamente la loro. Perché poi quando il “negro” dorme nel portico del loro palazzo, sono i primi a chiamare la polizia. Insomma, il razzismo è una questione di fatti. Non di parole. Le battaglie politiche contro le parole sono sterili e sciocche. Tavecchio è scivolato su una buccia di banana. Ma non facciamone un mostro.