Rocco Casalino, portavoce del Presidente del consiglio (Il “cavaliere inesistente” Conte), dà dei “pezzi di m….” ai dirigenti del Ministero dell’Economia e della Finanza, parlando senza mezzi termini di una loro eventuale epurazione. Un comportamento gravissimo che in qualsiasi paese che ha il senso della dignità delle proprie istituzioni avrebbe comportato le dimissioni dell’autore di quelle affermazioni. Invece nel “paese dei cachi” il Presidente del consiglio invoca il rispetto della privacy. E ministri e sottosegretari o nicchiano o difendono apertamente quella persona.

Il governo giallo-verde si è fin qui distinto soprattutto per inettitudine.  Dal decreto dignità (e misera) del lavoro di Di Maio, destinato a distruggere occupazione invece di crearla, alle intemerate estive del ministro degli Interni Salvini, che al di là di qualche imbarcazione bloccata in mezzo al mare con mezzi discutibili, non ha ancora prodotto un solo atto di governo (decreto o disegno di legge) finalizzato a produrre soluzioni stabili e non estemporanee ai problemi dell’immigrazione e della sicurezza (è di questi giorni l’annuncio di un prossimo decreto sicurezza) Un governo dalla linea incerta, quando non controproducente, e dalla guida inesistente. Tanto rumore sugli immigrati (questione vera, anche se utilizzata come efficacissimo specchietto delle allodole verso un elettorato spaventato e preoccupato per il futuro). Ma per il resto? Mentre crescono le incomprensioni e i dissapori all’interno del governo, fra Lega e 5stelle, per le evidenti divergenze di vedute su questioni di fondamentale importanza

In questo scenario, l’invettiva telefonica di Rocco Casalino, indirizzata ai tecnici del MEF, segnala un nuovo tratto distintivo del governo Conte: il bullismo.

Segnali in tal senso se ne erano già avuti in precedenza. Il video di poco più di una settimana fa che riprendeva lo scontro di Salvini con il ministro degli Esteri del Lussemburgo, Jean Asselborn, mostrava un ministro degli Interni, nonché Vice premier del Governo italiano, non proprio uso a modi diplomatici. Certo, l’argomento del confronto era di quelli che scottano. Però un ministro di solito non dice in una riunione istituzionale “io sono pagato dagli italiani per …”. A parte la caduta di stile, non si tratta nemmeno di un’affermazione vera. Il ministro Salvini è membro di un governo di coalizione, che gode della fiducia di un Parlamento in cui la Lega (il suo partito) ha poco più del 17% dei voti parlamentari (con altri partiti che, sempre in quel Parlamento: Movimento 5stelle e Pd) hanno ottenuto più voti di lui. Un governo che non è stato eletto direttamente dai cittadini ma è figlio di una scelta politica dei partiti. Sostenere di essere pagati dai cittadini italiani per fare qualcosa significa non avere nemmeno lontanamente un’idea di cosa siano le istituzioni di un regime democratico. Salvini può dire che i cittadini italiani la pensano come lui. E in questo momento, sondaggi alla mano, nessuno può dargli torto. Ciò però non è sufficiente a dargli il diritto di parlare come se il paese la pensasse esattamente come lui. “L’État, c’est moi!” può dirlo un monarca assoluto (assumendosi anche qualche rischio nel dirlo, come si sa dalla storia). Non un leader politico, pur legittimato dal consenso, di una democrazia liberale.

Rocco Casalino, però, va oltre e si spinge a sostenere che se non ci saranno i soldi per una manovra di bilancio che permetta di andare nella direzione voluta dal M5stelle (reddito di cittadinanza come priorità numero uno), il 2019 sarà dedicato all’epurazione di quei “pezzi di m… del Mef”. Forse si tratta di una trovata giornalistica. Ma ciò non cambia la sostanza delle cose, anzi forse la aggrava. Il rispetto delle istituzioni è anzitutto rispetto dei limiti del proprio ruolo, che non devono mai essere travalicati. E se è vero che l’indirizzo politico di un paese lo stabilisce il suo governo, a partire dalle linee di politica economica e con la definizione del bilancio, è altrettanto vero (è chiaro) che quanto meno dalle leggi Bassanini in avanti anche nel nostro paese, come in larga parte delle democrazie avanzate, gli apparati amministrativi dello stato rispondono della gestione di quegli indirizzi, e lo fanno nella piena autonomia del proprio ruolo.

Ma non finisce qui. Oggi l’altro vice Premier, nonché ministro del lavoro e dello sviluppo economico, Di Maio, ha definito “assassini gli autori del Jobs act”. Cosa che in un paese in cui alcuni giuslavoristi sono morti sotto il piombo delle Brigate Rosse ed altri ancora oggi sono costretti a vivere sotto scorta non rappresenta proprio il modo migliore e il tono più appropriato con cui dovrebbe esprimersi un ministro della Repubblica. Del resto, Di Maio voleva semplicemente significare che dal punto di vista suo, del suo partito e probabilmente del governo il Jobs Act è stato un vero disastro. E parlare di “assassini” è – dal suo punto di vista – solo un modo un po’ colorito di sostenere che quel giudizio rispecchia una verità, ciò che pensano i cittadini, perché le cose stanno proprio così. Punto e basta.

Di Maio, Casalino, Salvini, tre versioni diverse dello stesso modo di intendere il governo di un paese democratico: noi siamo il governo, noi siamo il paese, non siamo quello che pensa la gente, noi siamo con i cittadini. Tutto il resto non conta. Le istituzioni prima di tutto, che sono intese semplicemente come uno strumento nelle mani del potente di turno. Per non dire del pluralismo, questo sconosciuto.

Di Maio, Casalini, Salvini: tre modi diversi di declinare lo stesso bullismo di governo. Non solo populisti, sovranisti, euroscettici. Ma autoritari, illiberali, strafottenti. Ricordando il Marchese del Grillo, viene da dire: “Noi siamo lo Stato, e voi non siete un …”.

Tag: , ,