Dapprima una doverosa premessa: il pezzo porta per titolo “romanzo” perché è un testo molto più lungo del solito articolo da blog. Chiedo anticipatamente venia ai lettori, ringraziando coloro che avranno la compiacenza di arrivare alla fine. 

Il governo Conte II da ieri gode della fiducia del Parlamento. Si avvia così la seconda fase dell’esperienza governativa del Movimento 5 Stelle, che nel giro di poche settimane è passato da una maggioranza parlamentare con la Lega per Salvini premier a un’altra con il Partito Democratico.

Un anno fa, a conclusione del mio insegnamento di Istituzioni politiche per la laurea magistrale in Scienze politiche e di governo, avevo proposto ai miei studenti, pochi giorni dopo le elezioni politiche del 4 marzo, un semplice giochino. Un po’ per scherzo è un po’ per far vedere come applicare alcuni strumenti analitici che erano stati presentati durante il corso, avevo costruito una semplice applicazione esemplificativa della teoria delle coalizioni con la quale si dimostrava che il governo più probabile sarebbe stato quello fra Lega e 5Stelle. La formazione del nuovo governo era ancora lontana da venire e io per primo non presi molto sul serio quel semplice esempio analitico di come si può applicare alla realtà una teoria anche molto astratta. Di lì a un paio di mesi si formò il nuovo esecutivo, il governo Conte I, proprio con la maggioranza giallo-verde che avevo previsto con il mio esempio. E gli studenti del mio corso, che nel frattempo si era concluso, non mancarono di ricordarmi agli esami che ci avevo visto giusto.

In realtà, sempre stando a quell’applicazione analitica di teoria delle coalizioni, il governo giallo-verde si fondava su una logica ben precisa, quella di due forze politiche alquanto simili rispetto alla loro natura di partiti anti-sistema (la Lega di Salvini recuperava delle spinte radicali che erano del primo Bossi, anche se declinate contro un nuovo centralismo: non più quello romano ma quello di Bruxelles) e alla comune vocazione populista (termine del quale entrambi i partiti andavano orgogliosamente fieri). A ciò si aggiungeva una chiara propensione sovranista della Lega, a fronte della quale vi era una maggiore incertezza del Movimento 5Stelle nel posizionarsi fra Italia e Unione Europea. Ma quest’ultima cosa non avrebbe costituito un problema, dato che la maggiore determinazione della Lega di Salvini avrebbe contribuito a fare del confronto con la cosiddetta “Europa dei burocrati” un tenta caratterizzante il nuovo governo, con buona pace dei grillini, la cui posizione sull’Europa era più ambigua ma accomodante.

Inoltre, il governo Conte I si fondava su un bizzarro e ingenuo quanto singolare “contratto di governo”, che nulla aveva a che fare con gli accordi di governo delle grandi coalizioni SPD-CDU tedesche (dove i punti del programma dell’esecutivo vengono pienamente condivisi dopo una lunga fase di contrattazione dalle forze politiche che fanno l’accordo di coalizione). Si trattava piuttosto di un contratto stipulato nella logica del mutuo vantaggio (la cosa mi è stata chiara dopo un seminario con Fabrizio Di Marzio, amico e collega di Giuseppe Conte, nonché autore di un bel volume dal titolo La politica del contratto. Dalla affermazione dei valori alla negoziazione degli interessi, pubblicato lo scorso anno da Donzelli, in cui si spiega e si giustifica la logica del contratto di governo a fondamento del governo giallo-verde). Partendo dalla premessa per cui ciascuno ha i suoi valori e i valori non sono negoziabili, l’idea del contratto permetterebbe di individuare, sulla base degli interessi delle singole parti in gioco, il contenuto di un accordo nel mutuo vantaggio, cioè in grado di andare a vantaggio di tutti i contraenti. Con ciò , la politica del contratto di governo permetterebbe ai gialli di vedere gratificato il proprio interesse politico e ai verdi lo stesso, consentendo di perseguire i punti di programma che stanno più a cuore a ciascuno. Il contratto di governo, in questo senso, aveva illustri ispiratori, a partire dal filosofo americano David Gauthier, autore negli anni Ottanta di un bel libro, Morals by Agreement, che rivestì una certa importanza nel dibattito di allora sulle teorie della giustizia distributiva.

Ciò tuttavia non rendeva il contratto del governo giallo-verde meno bizzarro, ingenuo e singolare di quanto pensassi prima di fare la conoscenza di Fabrizio Di Marzio. In particolare, come ebbi modo di segnalare allo stesso Di Marzio anche durante quel seminario, mentre la logica dell’accordo nel mutuo vantaggio di Gauthier, quella a fondamento del contratto di governo, prevedeva che le parti in gioco dovessero dotarsi di criteri di giustizia, ovvero criteri per la valutazione di pratiche e istituzioni sociali una volta per tutte, la logica di formazione di un governo di coalizione non può considerarsi parimenti vincolante. Perché se ce ne sono le condizioni numeriche (numero di parlamentari) e politiche (prossimità nello spazio politico dei programmi dei partiti in gioco) i contraenti di un accordo di governo possono, in presenza di alternative, “separarsi” e scegliere alternative che al momento considerano migliori. E questo è proprio ciò che è successo questa estate: a un certo punto un partner della maggioranza ha deciso di mettere in crisi la coalizione di governo e l’altro si è scelto un altro compagno di strada, riuscendo così a formare un nuovo esecutivo. L’instabilità, e con essa anche l’ingenuità dal punto di vista politico, del contratto di governo veniva così chiaramente comprovata.

Le ragioni per cui Matteo Salvini ha deciso di procurare la crisi del governo Conte in piena estate sono ancora quasi del tutto ignote. Da un lato, viene da pensare a uno straordinario errore di sottovalutazione (di alleati e avversari di governo, oltre che del contesto politico del momento): meglio sarebbe stato continuare a divertirsi sulla spiaggia del Papeete, fra sculettanti cubiste in succinti costumi da bagno, piuttosto che andare in aula a Palazzo Madama in pieno agosto a decretare non tanto la fine di Conte e del suo esecutivo, quanto la propria estromissione dal governo. Dall’altro, l‘accelerazione improvvisa verso elezioni anticipate potrebbe essere stata suggerita dalla irrefrenabile volontà di andare all’incasso dopo che le ultime elezioni europee e tutti i sondaggi davano la Lega a percentuali di poco inferiori al 40 per cento. Sebbene anche in questo caso, escludere la possibilità che in un contesto proporzionale e a un anno solo dal voto i 5Stelle (e i suoi parlamentari, ben poco propensi a tornare alle urne) avrebbero potuto andare alla ricerca di soluzioni alternative di governo è stato quanto meno azzardato. Davvero Salvini pensava che i 5Stelle, una volta abbandonati dalla Lega, si sarebbero mestamente avviati verso le elezioni anticipate? Senza farsi nemmeno lontanamente accarezzare dalla tentazione di punire l’ex partner di governo, dopo che tra l’altro gli ultimi mesi di convivenza non erano proprio stati un idillio? Se così fosse, Matteo Salvini più che essere un leader politico sarebbe un pollo, anche piuttosto sprovveduto.  Resta quindi ancora in larga parte oscura, a un mese circa dall’inizio della crisi che ha portato alla nascita del governo Conte II e dopo che gli effetti strategici delle scelte di agosto si sono ormai interamente dispiegati, la vera ragione per cui Matteo Salvini abbia deciso di staccare la spina alla coalizione giallo-verde. E non ci si venga a dire delle pressioni esercitate dai compagni di partito della Lega, per l’insofferenza provata nei confronti dei 5Stelle e dei loro no. Perché gli scenari che si sono verificati erano almeno in parte prevedibili e nessuno decide di suicidarsi per fare un dispetto a un altro.

Lasciamo ai posteri il compito di dipanare quanto sia successo a Salvini e alla Lega, per occuparci invece del nuovo governo. Secondo in ordine di probabilità (sempre secondo il mio esempio di applicazione della teoria delle coalizioni), anche se assai meno probabile del governo giallo-verde, il governo giallo-rosso non nasce a mio avviso sotto un buon segno. È vero che ci siano (finalmente) lasciati alle spalle l’improbabile alchimia del contratto di governo. Ma è altrettanto vero che il programma del nuovo esecutivo Conte (mi riferisco al discorso di insediamento di ieri, in occasione del voto di fiducia della Camera) presenta sospette assonanze con quello che si direbbe essere un libro dei sogni.

Anzitutto, resta una vocazione palingenetica (del tipo “siamo arrivati noi a cambiare il mondo”) a rappresentare il “cambiamento” che, visto i precedenti, francamente fa un po’ ridere. Se fossi il Presidente del Consiglio, dopo la recente esperienza da “avvocato del popolo” nel governo giallo-verde soprassederei rispetto a un certo velleitarismo di maniera. Certo Conte, nella sua “terzietà” sembra non avvertire alcuna remora né imbarazzo per il triplo salto carpiato che, dal punto di vista politico e programmatico, lo ha portato dal governo con Salvini a quello con Zingaretti. E si è già lasciato alle spalle l’esperienza del precedente governo come fosse stata una spiacevole ed estemporanea disavventura. Tuttavia il personaggio non va sottovalutato, poiché ha avuto l’arguzia di parlamentarizzare la crisi di governo, mettendo così nell’angolo Salvini. E nel corso dell’ultimo anno da Palazzo Chigi si è costruito un insieme di relazioni internazionali che, con la benedizione del Quirinale, gli hanno permesso di tenere a galla l’Italia (evitando in extremis  la procedura di infrazione, per esempio) nei rapporti con gli altri paesi dell’Unione Europea. Emancipatosi definitivamente dal condizionamento di Di Maio e (soprattutto) Salvini, il Conte in versione giallo-verde ci riserverà sorprese che adesso non riusciamo nemmeno a immaginare. Del resto, le doti del trapezista le ha!

Al di là della retorica del cambiamento, il quadrato programmatico del governo giallo-rosso si contraddistingue per punti di sicura tenuta, così come per punti di potenziale rottura. Sulla riduzione delle tasse (che si accompagna alla promessa di farle pagare a tutti) e sulla lotta alle diseguaglianze la convergenza è evidente. Si tratterà solo di correggere il reddito di cittadinanza in modo da renderlo una misura più efficace ed equa. E sulle tasse vedrete che l’accordo si troverà più sulla linea di “anche i ricchi piangono” che sull’impervia strada della riduzione della pressione fiscale. Anche sulla revisione del decreto sicurezza e sulla politica degli sbarchi non sarà difficile trovare un’intesa, considerando che i 5Stelle su questi temi seguono come una banderuola al vento e che il PD ha alle spalle la positiva esperienza del Ministro Minniti. Si tratta di una via comunque accidentata, quanto meno dal punto di vista del consenso, vista la sensibilità verso questi temi dell’opinione pubblica, che nel corso dell’ultimo anno si è convinta dell’efficacia della linea Salvini. Però state pur certi che una soluzione PD e 5Stelle la troveranno.

Più controversa sarà l’individuazione di una strategia comune nei confronti dell’Unione Europea. È vero che la nuova stagione di Conte si inaugura all’insegna di un europeismo convinto. Anche se contrassegnato dalla volontà di indurre Bruxelles ad abbandonare la logica del rigore economico sempre e a  ogni costo. E la crisi che si profila per la Germania potrebbe essere di aiuto a creare una flessibilità maggiore rispetto agli obiettivi di compatibilità della Legge di bilancio. Ma è anche vero che l’europeismo dei 5Stelle è tutto da verificare. Perché nell’ultimo anno senatori e deputati grillini si sono esercitati senza pausa nel tiro al piccione su Bruxelles per coprire la propria sostanziale inadeguatezza a occuparsi di faccende economiche. Riusciranno i nostri eroi gialli, al di là della persuasione che su di loro cercheranno di esercitare i compagni di strada rossi, a evitare di “sfanculare” l’Europa al primo accenno di scontro?

E anche nei rapporti internazionali, al di là della scelta di campo a favore dell’atlantismo e dei valori del mondo occidentale (Stati Uniti in testa), non è affatto certo che le intemperanze grilline non favoriscano il verificarsi di situazioni imbarazzanti: un caso Venezuela, nel contesto internazionale, è sempre dietro l’angolo e il gruppo dirigente del PD potrebbe trovarsi in piena crisi di nervi. Inoltre, se l’ambiguità fra Stati Uniti e Russia che, per deliberata (e improvvisata) scelta di Salvini, ha contraddistinto l’azione diplomatica del primo governo Conte può considerarsi ormai definitivamente archiviata, a favore della tradizionale relazione privilegiata con Washington, non è però ancora chiaro come il secondo governo Conte inquadrerà i suoi rapporti con la Cina. La riscoperta della “via della Seta”, che aveva fatto del primo Conte un novello Marco Polo, potrebbe procurare qualche imbarazzo nel governo giallo-rosso, o quanto meno dovrebbe essere contestualizzata e giustificata rispetto alle nuove coordinate del sistema di relazioni internazionali di matrice occidentale in cui PD e 5Stelle intendono inquadrare l’azione del nuovo esecutivo.

Questi sono soltanto i temi di maggiore salienza. Altri ancora si potrebbero mettere sotto la lente di ingrandimento. Fatta salva la comune intenzione di investire sugli asili, forse anche per esorcizzare la pesante criminalizzazione del PD come “partito di Bibbiano” ad opera di un improvvido Di Maio, poche sono le certezze di un esecutivo che nasce nel segno di una manovra politico-parlamentare e che, per evitare il precipitare degli eventi (verso urne che avrebbero pregiudicato il percorso autunnale verso la Legge di Bilancio, portandoci quasi per certo verso l’esercizio provvisorio) non ha avuto il tempo di maturare una chiara convergenza programmatica. E proprio per questo, non posso fare a meno di manifestare un certo scetticismo sulle concrete chance di sopravvivenza di un’alleanza fra Movimento 5 Stelle e Partito Democratico che molti, secondo me prematuramente, prefigurano già come possibile embrione di una nuova coalizione di centro-sinistra.

Purtroppo per me, non ho le granitiche certezze di Conte, che da “uomo della provvidenza”, prima ancora che del “cambiamento”, profetizzò alla fine dello scorso anno “uno splendido 2019”, forse premurandosi più di leggere nella sfera di cristallo quello che sarebbe stato il suo destino che non le sorti del suo (primo) governo. E non riesco a comprendere nemmeno l’entusiasmo mal riposto di Zingaretti, che invece di festeggiare a Ravenna la “sconfitta del populismo in Italia” (non è troppo presto per dirlo?) dovrebbe preoccuparsi di un Renzi che dopo aver lanciato, con coraggio e furba maestria, il governo che lo scorso anno contrastò in tutti modi è andato manifestando toni sempre più tiepidi e insofferenti nei confronti del nuovo esecutivo, man mano che questo stava diventando una realtà.

La teoria delle coalizioni, già un anno fa, mi suggeriva due possibili principali soluzioni di governo: quella giallo-verde, che abbiamo già visto tragicamente all’opera fino ad agosto, e quella giallo-rossa, che vedremo, secondo me non necessariamente meno tragicamente all’opera a partire da oggi. Nessuna delle due risultava però essere così stabile da assicurare al governo una sufficiente longevità. Nel primo caso, questa assenza di stabilità è già stata dimostrata dai fatti. Nel secondo caso, credo che si tratti solo di aspettare. Il tutto, purtroppo, a discapito degli italiani. Non quelli invocati dalla ditta Meloni & Salvini, perché in una democrazia parlamentare non sta scritto da nessuna parte che si debba tornare al voto se cambiano le condizioni di consenso nel paese. Si torna al voto nel caso di una democrazia parlamentare maggioritaria, come nel caso inglese, dove almeno fino a ieri gli esiti delle elezioni conferivano automaticamente la legittimità a formare il nuovo governo al partito vincente (oggi, purtroppo, non è più così nemmeno nel Regno Unito). Ma questa cosa dipendeva dalla presenza di bipartitismo, oltre che dall’abituale configurazione monopartitica (e non di coalizione) del governo. E in una democrazia in cui non ci sono queste caratteristiche, vincolare alla verifica delle urne ogni stormir di fronda nei sondaggi non sembra essere una pratica molto salutare per il buon funzionamento delle istituzioni. Però quest’ultima può anche essere una mia opinione. L’unica cosa incontestabile è che in un sistema politico in cui il governo non è formato da un solo partito e la legge elettorale è proporzionale sta nel normale procedere delle cose che, se ci sono partiti c’entrali poiché  indispensabili alla formazione di diverse coalizioni di governo, questi possano organizzarsi per sostituire un partner di maggioranza con un altro. La politica è anche questo, il resto è solo demagogia.

Non è la parola sottratta agli italiani che mi preoccupa, dunque. Ma l’assenza di condizioni politiche in grado di permettere la formazione di governi stabili e coesi, e quindi in grado di considerarsi responsabili della loro azione rispetto a un chiaro e condiviso programma di governo di fronte ai cittadini. Questo è un problema che ereditiamo da lontano. E che fatichiamo a lasciarci alle spalle. Il triste spettacolo di ieri, di due arene, la piazza e il palazzo, dedite a urla e cori da stadio è lì a dimostrarlo. Mentre il paese aspetta invano qualcuno in grado di risolvere concretamente i suoi problemi.

Tag: , , , , , ,