Da principio,  Palazzo Chigi con il conforto della sua maggioranza ha provato a farla passare per una decisione “tecnica”, quando non addirittura come una scelta di ordinaria amministrazione. Del tipo. il Coronavirus circola ancora, anche se nelle ultime settimane ha mietuto meno contagi e vittime, quindi meglio essere pronti a ogni evenienza, prolungando lo stato di eccezione che ci vede governati a colpi di DPCM almeno fino alla fine dell’anno. Già, perché se per caso si dovesse nel frattempo scoprire un vaccino, potremmo finalmente dichiararci fuori dall’emergenza. Ma se ciò non dovesse accadere, e non sia mai, sarebbe lecito (costituzionalmente e democraticamente!) ipotizzare che tale stato di eccezioni perduri quanto meno fino all’individuazione di un vaccino e alla sua pervasiva distribuzione attraverso un’accurata campagna di profilassi. E con ciò, lo stato di eccezione potrebbe perdurare ancora per un annetto o due.

E’ chiaro che stiamo parlando dello “stato di emergenza”, che l’esecutivo si appresta a prorogare rispetto alla scadenza attualmente prevista per il 31 luglio di altri tre o cinque mesi.  Una scelta che dapprima sembrava potesse essere presa in sordina, visto che la schiera di costituzionalisti che è solita levarsi in difesa della “Costituzione più bella del mondo” (che poi, a detta degli stessi padri costituenti, non era nemmeno scritta in un buon italiano … ma lasciamo perdere!) risultava distratta e assopita in attesa del ritorno al governo di uomini solo al comando di comprovato piglio decisionista come Berlusconi, Renzi e Salvini. Poi però un minimo di discussione è venuta montando, in parte sollecitata anche dall’intervista del Presidente del Senato, Casellati, che anche se non aveva ben capito che di ciò non si sarebbe parlato questa settimana in aula, ma viceversa delle comunicazioni del Ministro della salute sui provvedimenti di sua responsabilità, ha gettato un primo sasso nello stagno, provocando le prime oscillazioni di acque fino a quel momento assai placide.

E così, nell’arco di una manciata di giorni, il dibattito ha preso vigore, peraltro nella sorpresa inettitudine della maggioranza di governo che (passi per i Cinque stelle, da sempre ispirati da una incultura giuridica giustizialista e forcola, ma il PD…) fino a qualche giorno prima non avrebbe mai immaginato quanto un provvedimento di ordinaria amministrazione di quel tenore potesse rompere il placido susseguirsi delle giornate di un governo meritevole di un po’ di riposo dopo i mesi infuocati del lockdown e dell’emergenza (quella sì, vera!).

Sorprende solo fino a un certo punto che il rumore abbia tardato così tanto prima di affacciarsi sulla scena del dibattito pubblico e politico-parlamentare. Perché, a ben guardare, non è che il nostro paese, i suoi intellettuali, la stampa quotidiana e periodica, l’opinione pubblica e la classe politica brillino proprio per solida cultura liberale e democratica. E anche ora, che la questione si è aperta e la discussione sta prendendo piede, prevale nettamente l’impressione che il confronto non sia tanto sui principi della convivenza democratica e civile, quanto sulle convenienze di questa o quella parte politica – e delle rispettive tifoserie – a giustificare o meno una scelta che avrebbe come conseguenza diretta stabilizzare ancora per qualche mese un governo che, attenuatasi l’onda d’urto della pandemia, non ha fatto altro che fibrillare a causa di continue tensioni interne.

Proviamo quindi a prendere sul serio il tema – spinoso e controverso, sia dal punto di vista costituzionale e giuridico, sia dal punto di vista filosofico e politico – dello “stato di emergenza”. Dal punto di vista costituzionale e giuridico la conferma di uno stato di emergenza che in questo momento non esiste solleva forti dubbi. Come ha giustamente osservato Sabino Cassese, il governo confonde “urgenza” con “emergenza”. In qualsiasi momento, proprio qualsiasi, il governo può con una semplice delibera attuare lo stato di emergenza, dando a quel provvedimento effetti immediati. A meno che a Palazzo Chigi temano di restare tutti vittima di una nuova ondata di Coronavirus, ovvero che il ripresentarsi del contagio in maniera altrettanto imprevista di qualche mese fa trovi il governo del tutto impreparato (vacante? o in vacanza?), non ha alcun senso prolungare lo stato di emergenza per altri mesi. Qualora fra agosto e dicembre dovesse prefigurarsi una nuova emergenza, Conte e il suo governo possono farci il favore (e il piacere) di riunirsi celermente e adottare le misure del caso, fra le quali l’attuazione dello stato di emergenza. In questo momento, non sussistono le condizioni per farlo: il timore di una seconda ondata, a parte l’essere di pessimo auspicio, non è di per sé sufficiente. Inoltre, altri strumenti legislativi a disposizione dell’esecutivo per affrontare eventuali situazioni urgenti (ma non di emergenza, che è tutt’altra cosa!) ci sono. A partire dai decreti legge, oltre che dai decreti e regolamenti che possono essere rapidamente adottati dai singoli ministri, in primis il Ministro della Salute. Le stesse procedure pubbliche di appalto possono essere tranquillamente negoziate senza bando di gara non dovendo ricorrere alla dichiarazione dello stato di emergenza.

Nello stato di diritto, sia che esso si ispiri ai principi del diritto codificato sia nella forma consuetudinaria della rule of law dei paesi anglosassoni, è buona norma che le situazioni eccezionali come lo stato di emergenza, rispondano a due criteri fondamentali: la brevità della deroga e l’ampio consenso rispetto alla sua adozione, ovvero – e soprattutto – rispetto alla sua proroga. C’è un’ampia letteratura di filosofia e teoria del diritto che afferma come, nel caso di proroga di misure eccezionali, queste debbano essere sostenute non più da maggioranze semplici (la metà dei voti più uno) ma da maggioranze qualificate in maniera crescente (3/4, 4/5 ecc.). Perché se una situazione di emergenza va affrontata in maniera risoluta, in primo luogo dal governo e dalla sua maggioranza, il suo procrastinarsi nel corso del tempo, per non costituire un abuso di potere, richiede un’ampia condivisione fra le diverse forze politiche.

Ma non si tratta soltanto di ragioni in punta di diritto. Vi sono infatti ragioni di opportunità e legittimità politica che suggeriscono di evitare l’adozione forzosa di uno stato di emergenza quando non ne sussistano in maniera evidente le condizioni. Dal punto di vista della teoria politica, le forme di giustificazione dell’obbligo politico contribuiscono a delineare le caratteristiche fondative di un regime. Il passaggio dallo stato assolutista allo stato liberale costituzionale, per fare un esempio, corrisponde proprio al mutamento delle condizioni dell’obbligo politico, che nel primo caso consentono al Sovrano di disporre ab libitum  dei propri sudditi (fino alla sopravvivenza), mentre nel secondo obbligano il Sovrano al rispetto dei diritti inalienabili (libertà civili e politiche, costituzionalmente garantite) dei cittadini. Se pensiamo alla tradizione del pensiero politico contrattualistica, si tratta della differenza che intercorre fra Hobbes e Locke, laddove il secondo rispetto al primo ammette la possibilità di “uccidere il Sovrano” qualora questi non rispetti i diritti degli individui.

Considerando il confronto fra questi due differenti modelli di obbligo politico – quello hobbesiano e quello lockeano – è possibile comprendere il senso più profondo dello stato di emergenza: quando si concretizza una situazione eccezionale lo stato liberale, che giustifica l’obbligo politico in ragione dei limiti imposti all’esercizio del potere sovrano, equivalenti ai diritti civili e politici riconosciuti ai cittadini, può “retrocedere” alle condizioni dello stato assoluto perché soltanto il potere sovrano può garantire l’integrità individuale. In questo senso, lo stato di emergenza equivale a una configurazione in cui si esercita una coercitiva limitazione dei diritti individuali, che può ritenersi giustificata soltanto dalla necessità più impellente di garantire l’incolumità dei cittadini.

Lo stato di cose che si è determinato fra la fine di febbraio e le prime due settimane di marzo presentava le caratteristiche di questa particolare situazione di eccezione. E in quelle condizioni la giustificazione di un obbligo politico stringente verso uno stato che, in quel momento, limitava fortemente le libertà individuali poteva ritenersi accettabile. Ma soltanto perché quelle limitazioni erano funzionali alla preservazione dell’integrità fisica dei cittadini, a fronte dell’emergenza della pandemia. Non dimentichiamoci che la ragione principale del lockdown consisteva nell’insufficienza dei posti letto in terapia intensiva rispetto alla dilagante e incontrollata propagazione dell’epidemia.

Oggi, che quelle condizioni sono manifestamente venute meno (non sappiamo se si ripresenteranno in futuro, ma di certo qui e ora non ci sono), la giustificazione dello stato di emergenza, ovvero la legittimità di un obbligo politico verso un regime di stampo hobbesiano caratterizzato da una straordinaria limitazione delle libertà individuali, non ha più motivo di essere.

Come ci ha insegnato Carl Schmidt, il sovrano (inteso in termini pressoché assoluti) è colui che decide in condizioni di eccezionalità, ovvero nello stato di emergenza. E sempre Schmidt ci ricorda che in quelle condizioni di eccezionalità è la tecnica a prendere il sopravvento sulla politica. L’esperienza di questi mesi ha reso evidenti i limiti di un governo che fatica ad assumersi la responsabilità di scelte genuinamente politiche. E che per sopperire a tali limiti ha deciso di consegnare lo scettro delle decisioni imperative alla comunità scientifica, a sua volta divisa in scuole e prospettive non sempre capaci di offrire un’interpretazione condivisa di ciò che stava accadendo. Ad onestà del vero, anche l’opposizione non sembrava avere una chiara visione delle cose: lo stesso Salvini, nel corso degli ultimi mesi, ha detto tutto e il contrario di tutto. Si è perciò evidenziato uno straordinario vuoto della politica e delle classi dirigenti del paese, che a maggior ragione non può rappresentare una facile giustificazione per cui una parte politica – quella al momento al governo del paese – possa pretendere una proroga dello stato di emergenza. Oggi l’Italia ha più che mai bisogno di scelte politiche chiare e responsabili, che devono inquadrarsi entro un confronto politico aperto e una restituzione alle istituzioni repubblicane della piena dignità delle proprie prerogative. Non vi è alcuna ragione per continuare a vivere in uno stato di cose hobbesiano, in cui chi governa si veda riconoscere una delega di autorità assoluta e senza contrappesi.

 

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