Il secondo appuntamento del programma espositivo Venere divina. Armonia sulla terra vede protagonista il capolavoro di Tiziano in prestito dalla Galleria Borghese di Roma. Un dipinto famoso già nel Seicento, oggetto di studio da parte di pittori come Antoon Van Dyck, ma anche di storici dell’arte e studiosi che ne hanno variamente interpretato il soggetto: Venere che benda Amore di Tiziano (1560-65) è uno degli ultimi dipinti del maestro veneto, parte della collezione della Galleria Borghese, è in prestito a Palazzo Te in occasione di questa esposizione straordinaria visitabile fino al 5 settembre 2021. Palazzo Te a Mantova presenta un ricco programma di appuntamenti: incontri e performance dedicati al mito di Venere saranno ospitati negli spazi del Palazzo tra cui l’Esedra, ripensata per accogliere il pubblico. “Grazie alla generosità della Galleria Borghese – commenta il Direttore di Fondazione Palazzo Te Stefano Baia Curioni – questo prezioso quadro si mostra a Mantova e a Palazzo Te: un altro nuovo, intenso augurio di ripartenza per la città, un’altra occasione per ritrovarci insieme nel museo.”

L’episodio raffigurato è un momento speciale: Venere sta bendando un cupido mentre viene distolta da un altro giovinetto alato che le si poggia su una spalla con sguardo pensieroso, forse preoccupato per le persone che saranno trafitte dalle frecce scoccate da Amore cieco. Quest’opera di Tiziano suggerisce ancora oggi, dopo cinque secoli, la controversa complessità dell’amore e della bellezza da cui si genera.

Il quadro è datato fra il 1560 e il 1565, gli anni estremi dell’artista. L’immagine, sgretolata e sognante, è costruita con grande maestria: al centro del quadro non c’è nessuno dei protagonisti della scena, ma un’apertura verso un paesaggio al tramonto. In un accordo cromatico sofisticato, il rosa e l’azzurro si ritrovano sulle piccole ali del Cupido bendato e nel blu del panneggio di Venere, opposto al rosso cremisi dell’ancella con le frecce. I bianchi delle vesti e gli incarnati sono percorsi dalla luce, e i delicati passaggi alle ombre colorate contribuiscono a rendere meno definiti i contorni delle figure, affidati all’occhio dello spettatore e alle sue capacità di afferrarle.

Curata dalle colleghe storiche dell’arte Claudia Cieri Via e Maria Giovanna Sarti, l’esposizione del capolavoro di Tiziano, Venere che benda Amore, è inclusa in Supercard Cultura, l’abbonamento museale dedicato ai cittadini di Mantova e provincia che consente di visitare liberamente per un anno Palazzo Te. Con l’occasione Fondazione Palazzo Te ha deciso di includere nell’offerta di Supercard Cultura anche l’accesso alla mostra autunnale di Palazzo Te Venere. Natura, ombra e bellezza senza alcun sovraprezzo. Un importante sforzo per confermare la scelta di investire nel rapporto con i cittadini di Mantova e della provincia, per aiutare la ripartenza della cultura e del territorio.

La storia dell’opera

Il dipinto è citato per la prima volta nel 1613, nel poema di Scipione Francucci, dedicato alla raccolta di Scipione Borghese, collezionista a dir poco appassionato di pittura e di sculture antiche e moderne. Francucci descrive il soggetto come “Venere che benda Amore” elencando i comprimari: un altro cupido e le due ninfe Dori e Armilla, una con le frecce e l’altra con l’arco. La scena è risultata sempre di difficile interpretazione, tanto da acquisire titoli diversi negli inventari successivi, dove al principio del 1620 la vide anche Antoon van Dyck, come testimoniato da un disegno nel taccuino italiano di schizzi, oggi al British Museum. Nel Novecento interpretazioni più complesse si sono basate su fonti letterarie: Hans Tietze ha proposto che Venere stia punendo Amore per essersi innamorato di Psiche, come nelle Metamorfosi di Apuleio, mentre Erwin Panofsky formula un’interpretazione neoplatonica identificando nei due cupidi Eros e Anteros, cioè l’amore passionale e l’amore divino. Letture successive hanno parzialmente incrinato queste interpretazioni: non si può escludere che la scena rappresenti l’Educazione di Cupido, dove l’Amore cieco sta per compiere le prime imprese, disseminando casualmente con le sue frecce innamoramenti e passioni.  Il dipinto è citato per la prima volta nel 1613, nel poema di Scipione Francucci, dedicato alle opere della raccolta di Scipione Borghese, cardinal nipote da otto anni, collezionista appassionato di sculture antiche e moderne, di pittura contemporanea e di capolavori cinquecenteschi. Francucci descrive il soggetto come “Venere che benda Amore” elencando anche i comprimari: un altro cupido e le due ninfe Dori e Armilla, una con le frecce e l’altra con l’arco. La scena risulta da sempre di difficile interpretazione, tanto da acquisire titoli diversi negli inventari successivi della villa, dove al principio del 1620 la vide anche Antoon van Dyck, come testimoniato da un disegno nel taccuino italiano di schizzi oggi a Chatsworth. L’identificazione delle figure oscilla infatti fra Venere che benda Amore, in presenza delle sue ninfe, e una raffigurazione delle tre Grazie con i cupidi.

Nel Novecento, interpretazioni più complesse si sono basate sul reperimento di fonti letterarie; Hans Tietze ha proposto le Metamorfosi di Apuleio, in cui Venere punisce Amore per essersi innamorato di Psiche, requisendogli le armi. Erwin Panofsky formulò una interpretazione neoplatonica, identificando i due cupidi Eros e Anteros con l’Amore passionale e l’Amore divino, che non è cieco, ma in grado di contemplare il vero Amore, una differenza non formulata chiaramente nelle fonti antiche, ma codificata ampiamente nel testo di Vincenzo Cartari Le imagini degli dei degli antichi. Nei suoi studi del 1939, parzialmente ritoccati nell’edizione del 1969, lo studioso pensava a una allegoria dell’amore coniugale, basandosi sull’identificazione delle due figure femminili come piacere e castità. Le letture successive hanno parzialmente incrinato queste interpretazioni, poiché, osservando le espressioni dei personaggi, pare che le due donne stiano per consegnare le armi a Cupido, invece che avergliele sottratte; l’Amore in grado di osservare, appoggiato alla spalla della madre, appare quasi preoccupato, invece che sicuro della sua superiorità al fratello bendato. Non si può escludere che la scena rappresenti l’Educazione di Cupido, che qualche volta appare anche in cataloghi recenti come titolo alternativo a quello tradizionale, perché in effetti sembra proprio che Venere intenda lasciare che l’Amore cieco compia le sue prime imprese, colpendo i mortali con le frecce e disseminando innamoramento e passione.

Le radiografie effettuate nel 1992-93 e pubblicate nel 1995 hanno evidenziato considerevoli ripensamenti: la testa di Venere ha cambiato quasi totalmente inclinazione, volgendosi verso il bambino pensieroso, ma soprattutto una terza figura è stata eliminata. Kristina Hermann Fiore vi ha visto la terza delle Grazie, potendo così sostenere l’ipotesi di una prima idea tizianesca veramente basata sulla descrizione di una pittura antica, celebrata come Venere fra le Grazie e i Cupidi, che Tiziano avrebbe ripreso, in un “paragone” con le fonti letterarie dell’eccellenza della pittura.

Con buona probabilità, l’identificazione del soggetto sarebbe molto aiutata se riuscissimo a immaginare il contesto della commissione, che purtroppo ancora ci sfugge. Miguel Falomir ha recuperato la preziosa citazione di un soggetto molto simile nell’inventario di Antonio Pérez, redatto a Madrid nel 1585. Non c’è nessuna certezza che il quadro fosse destinato inizialmente a Pérez, anche se non si deve dimenticare come questi possedesse altri originali di Tiziano. Inoltre, non è chiaro come, dalla Spagna, il dipinto possa essere passato a Roma, nella collezione di Paolo Emilio Sfondrati, nipote di Gregorio XIV e celebre a Roma all’inizio del secolo per l’attenzione dedicata alla chiesa di Santa Cecilia e al culto della martire protocristiana. Nell’elenco dei suoi quadri, del 1608, può essere identificato il dipinto, che, insieme ad altri, ritroviamo fra i beni di Scipione.

Sebbene non ne conosciamo l’origine e l’esatta data di esecuzione – probabilmente fra il 1560 e il 1565 –, il quadro ci riporta al clima delle “poesie” tizianesche, a quel processo di ispirazione dall’antico che qui, negli anni estremi dell’artista, dà luogo a immagini sgretolate e sognanti. La composizione è costruita con grazia e maestria: al centro del quadro non appare nessuno dei protagonisti della scena, ma un’apertura verso un paesaggio al tramonto, con il cielo colorato di nuvole rosa e arancioni, sopra le montagne azzurrine. In un accordo cromatico sofisticato, il rosa e l’azzurro si ritrovano sulle piccole ali del Cupido bendato, e da un lato nel blu del panneggio di Venere, opposto al rosso cremisi dell’ancella con le frecce. I bianchi delle vesti e gli incarnati sono percorsi dalla luce e i delicati passaggi alle ombre colorate contribuiscono a rendere meno definiti i contorni delle figure, affidati all’occhio dello spettatore e alle sue capacità di afferrarle.

Tra le copie di grande qualità di questo dipinto si segnala la tela conservata a Madrid (Museo del Prado, inv. 2557) che, secondo Harold Wethey, fu comprata a Roma da alcuni agenti diplomatici, entrando in seguito nelle collezioni reali spagnole. Con buona probabilità, tale replica fu eseguita nell’Urbe, alla vista di quella Borghese, intorno ai primi decenni del XVII secolo. Un’opera, simile alla composizione Borghese, è inoltre esposta alla National Gallery di Washington (cat. X-5), eseguita intorno al 1570 da un anonimo discepolo del maestro cadorino. Questo dipinto mostra sulla destra, alle spalle della divinità, una donna raffigurata nell’atto di sollevare una cesta che verosimilmente doveva apparire anche nella tela Borghese, come emerso dalle indagini radiografiche.

Le indagini diagnostiche

Le indagini diagnostiche, riflettografiche e radiografiche, condotte da Ars Mensurae sul dipinto, hanno messo in evidenza l’esistenza di una diversa rappresentazione al di sotto di quella attualmente visibile. È stata identificata una figura femminile dipinta e chiaroscurata, al centro del dipinto (della scena), che sorreggere un oggetto di forma ovale. Inoltre, è stato individuato un quadrettato per il trasferimento di disegni o cartoni preparatori, questo conferma un modus operandi tipico della bottega di Tiziano in cui composizioni e modelli venivano spesso riutilizzate. La figura femminile nascosta, forse affidata a uno dei collaboratori, è stata poi coperta dal maestro perché non funzionale al significato allegorico del dipinto.

Per la protagonista del dipinto, Venere, la riflettografia ha messo in luce la variazione dei tratti del volto rispetto a una prima versione: sono osservabili i due occhi traslati verso sinistra, il diverso posizionamento del naso e della bocca, l’esistenza di un nuovo orecchino. La radiografia invece ha mostrato come l’acconciatura in origine fosse ornata da fili di perle e coperta da un cappello con piume, e il seno fosse inizialmente scoperto. La veste bianca, leggibile in infrarosso, risultava nella precedente versione di maggiore ampiezza e leggerezza, il manto azzurro sembra continuasse al disotto del piede dell’Amore alle sue spalle. Appare inoltre ipotizzabile una diversa posizione delle mani nell’atto del bendare, la riflettografia suggerisce che fosse Amore stesso ad aiutare a tirare un lembo della benda. Attraverso altre indagini (Riflettografia Infrarossa in falso colore, Fluorescenza Ultravioletta, Fluorescenza X EDXRF), si sono ottenute indicazioni macroscopiche sui pigmentipresenti negli strati superficiali dell’opera e quindi della tavolozza del Maestro.

“Oggi, proprio nell’anno di Venere e con l’occasione di questa collaborazione tra Palazzo Te e Galleria Borghese – spiega Francesca Cappelletti, Direttrice della Galleria Borghese – il dipinto è stato oggetto di nuove indagini ed è stato rimesso al centro di studi di storia dell’arte e diagnostici per andare a fondo su un aspetto importante di questo quadro: la presenza di ripensamenti. Intere figure sono state cancellate lasciando intendere una riconfigurazione complessiva dell’iconografia di Venere. È un modo di lavorare di Tiziano tipico degli anni tardi della sua attività, il dipinto è stato datato intorno al 1560, sebbene in questo periodo non siano molto frequenti nella produzione dell’artista riferimenti alla mitologia classica o a fonti poetico letterarie.”

Carlo Franza

 

 

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