Da quindici generazioni, nella nostra famiglia, il primo matrimonio non è mai quello giusto…

 

 

 

 

Piangeva, Valerie. A dirotto. Come una fontana. Nonostante fossero passati sei mesi, non le era andato giù che, dopo un pugno di anni di matrimonio, aveva divorziato. Era Natale e Valerie piangeva.

Sintetizzato così, Un piano perfetto, seconda fatica cinematografica di Pascal Chaumeil dopo il fortunato Truffacuori del 2010, sembra il solito melenso cocktail di buoni e cattivi sentimenti. Invece il regista, perfettamente a suo agio dopo 25 anni di vita con la stessa donna, guarda in casa d’altri. Di coloro cioè ai quali non va altrettanto bene. Non è voyeurismo, sia chiaro. Piuttosto scaramanzia perché quella rispettabile famiglia era costruita su una maledizione. Le prime nozze finivano regolarmente in frantumi. Per questo Valerie non avrebbe dovuto dolersene poi tanto. Almeno secondo i natalizi commensali.

Tra un antipasto e un primo, una chiacchiera tira l’altra e un singhiozzo ne tira un altro. Così Corinne racconta la storia di sua sorella che, proprio in tema di matrimonio, aveva dichiarato guerra al sortilegio. Uno scontro ad armi pari, forse. Faccia a faccia con la iella, certo. E Isabelle (la Diane Kruger di Bastardi senza gloria di Quentin Tarantino, Io & Beethoven di Agnieszka Holland e Troy di Wolfgang Petersen) la combatteva da femmina. Ovvero: trovo un pollo, lo sposo, divorzio e il matrimonio – quello serio, quello vero – può essere celebrato senza patemi. E la sfiga è alle corde. Compitino facile facile. Ma solo in teoria. Perché alla lunga la fanciulla s’innamora più del pollo (Dany Boon del suo Giù al Nord, Benvenuti al sud di Luca Miniero e Asterix e Obelix al servizio di Sua Maestà di Laurent Tirard) che non di quel fidanzato dentista tutto bowling al mercoledì, stesso ristorante con identico menu al giovedì, una notte di passione settimanale al venerdì e una vita computerizzata. Ovattata, noiosissima, sconfortante, annientante routine…

A questo punto, chi pensa che il film sia bruciato da un epilogo rivelato in dettaglio, non dimentichi che è Natale. Nella trama s’intende. E sotto l’albero tutto può accadere. Ne esce una pellicola deliziosa che di melenso non ha nulla. Si ride, invece. Con una raffinatezza capace di buttare in ridicolo la maledizione del divorzio alle prime nozze. Ma la satira non si concentra soltanto sul problema frequentato e poco originale delle riuscite matrimoniali, piuttosto sulla credenza avvolgente della superstizione alla quale spesso si accorda un tributo e un riconoscimento eccessivo a quello che le spetta in realtà. Tutti un po’ troppo legati forse a pregiudizi e paure. Condizionamenti e ansie.

Un piano perfetto è critica contro tutto ciò che è scontato. La derisione di esasperate programmazioni che invadono vite. Dominano quotidianità. Governano esistenze. Fino a condizionarne l’andamento e perfino i desideri. Fino a far abortire entusiasmi. E perfino giorni. Senza sorprenderne mai l’immutata ripetitività. La routine è l’altro asse portante, collegato e dipendente dai precedenti. Se da un lato può sembrare una coperta calda in cui nascondere e coprire i tremori per tutto ciò che è estraneo, nuovo, sconosciuto e perciò insidioso, dall’altro è la morte del brivido di suspense che accresce il desiderio di conoscere il futuro nell’atto di diventare presente. Un copione già scritto, insomma, che non colpisce ma stanca.

Il film scorre fra le risate compite, lontane dal dramma della cena natalizia, che rappresenta l’asse portante su cui si innestano i flash in cui Corinne racconta le vicissitudini della sorella per dare scacco alla sfortuna. Mentre scorrono i titoli di coda c’è ancora spazio per cogliere in controtempo il pubblico e far rimanere seduto chi è già pronto a lasciare la sala. Accanto alle didascalie finali scorrono infatti immagini del backstage, che mostrano alcuni ciak viziati da buffi errori di recitazione. Una raffica di gag che comincia a diffondersi a macchia d’olio. Recentemente anche Come ti spaccio la famiglia si conclude con lo stesso telaio.

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