Quando la morte è una liberazione: le scelte sbagliate di “The counselor”
Se continua ad andare avanti su questa strada, arriverà a fare scelte morali che la stupiranno profondamente. Scelte che non si aspettava affatto
Deserto. Come lo è talvolta la selva del cemento cittadino. Come lo sono gli animi. Bruciati dall’aridità dell’assenza. Di vita. E, spesso, di significato. Ruoli confusi e nascosti. Dietro l’effervescenza di lustrini. E la luce di un diamante. Celati dietro una rincorsa al denaro. Slalom tra i codicilli di una legislazione educata. Amori finti e maledetti. Amori a cento all’ora. Amori di sé. Fior fiore del cinismo. Grinta di un ghepardo che corre nella savana. Cattura la lepre. La uccide. Malvagia natura infedele. Senza pietà. Ma austera. Elegante. Sfacciatamente bella. Desiderabile. E appariscente. Come gli occhi di Penelope Cruz. Il graffio mortale di Cameron Diaz. Quel delinquente bonaccione di Javier Bardem in improponibili forme di hawaiana. O Brad Pitt ambiguo, forse anche per sé stesso. E Michael Fassbender più sorprendentemente idiota di un idiota vero.
Sono disprezzo e impudenza quello che resta di The counselor – Il procuratore di Ridley Scott (regista di Blade Runner, Thelma & Louise, Il gladiatore, Nessuna verità) girato tra la Spagna e Londra, ma ambientato in un Messico da mettere i brividi. Il cartello di Juarez non fa prigionieri. Prima spara, poi guarda chi è morto. E gli autolavaggi, nelle strade, non si formalizzano né si domandano perché occorra così spesso pulire quel liquido rosso raggrumato negli abitacoli. Sangue “pulito”. Sangue senza colpe. Tantomeno si pongono domande su corpi sconosciuti, chiusi nei barili, che viaggiano con la coca. O con qualsiasi carico. Forme difformi di clandestinità. Pampas dove tutto è lecito. E i bambini sono piccoli sciacalli del deserto. Il morto viene alleggerito. Nessuna pietà per chi guarda con occhi sbarrati la pioggia cadere tra le pupille. Secondo la sceneggiatura. O quelle palpebre spalancate sul sole. Secondo la regia del film. Varianti meteorologiche che non alterano la semantica. E nelle discariche finiscono corpi senza vita. Smaltiti come spazzatura. Senza volto. Senza nome. Né appartenenza. O cittadinanza.
Cornice ideale per uno dei temi più cari a Cormac McCathy, autore della sceneggiatura, nell’unico testo scritto per il cinema, pubblicato da Einaudi (pp. 115, euro 14,50) con il medesimo titolo del film. L’autore di Meridiano di sangue, Suttree, The road e Non è un paese per vecchi – romanzi, questi ultimi due, entrambi approdati sul grande schermo, sotto la direzione rispettivamente di John Hillcoat e dei fratelli Coen – è la natura non intrinsecamente buona dell’uomo che, in The counselor, risalta con toni accesi. Tutti i protagonisti, a loro modo, lo sono. Dalla perfida Malkina (Cameron Diaz) che tradisce per assicurarsi il denaro, offrendo senza rimpianti alla morte il fidanzato Reiner (Javier Bardem), spudorato e malvagio nel coinvolgere in loschi affari un procuratore (Michal Fassbender), tanto stupido quanto consenziente, per la propria insaziabile e pervicace ricerca di facili ricchezze. Crudele come il disinteressato Westray (Brad Pitt), un dandy vestito come Hank Williams, intermediario di poco conto che se la svigna alle prime difficoltà, lasciando esposto proprio il legale: “Se pensi che un amico sia qualcuno disposto a offrire la propria vita per te, sappi che devi cavartela da solo”. La stessa cattiveria e indifferenza che fa da comune denominatore nella caratterizzazione di tanti comprimari, ai quali si deve – oltre agli altri – il tono generale del film.
Messico con molte nuvole, quindi, misura di un mondo in cui non esiste la più debole speranza. E in quell’inferno forse l’unico auspicio è che la fine, una qualunque fine, arrivi presto. Anche se si chiama morte. Una visione catastrofista che non è escatologica perdizione, ma la consapevolezza di McCarthy che le persone abbiano sempre una scelta da compiere, ma spesso optino per quella sbagliata. E, insieme alla perfidia diffusa, tutti gli eroi di Ridley Scott, al momento di decidere, prendono la strada scorretta. Laura (Penelope Cruz) si espone alla selvaggia vendetta della criminalità, ascoltando le imbeccate fuori luogo dettatele da quello spasimante dalla ridotta materia grigia. Quest’ultimo non comprende neppure che cosa gli convenga davvero e si affida ai pareri altrui. Reiner scappa quando non dovrebbe, Westray dà confidenza a chi non dovrebbe. Il procuratore commette l’errore di liberare il figlio della sua cliente-omicida, pagandogli la cauzione per l’eccesso di velocità di cui era stato accusato. E via elencando.
Il film ha i bagliori di una dimensione apparentemente felice e spensierata, in cui sembrano compiacersi i protagonisti, immersi in una vita di lustrini e paillette. Tra il presente ricco di affari redditizi o prospettive matrimoniali e una realtà cui girarsi dalla parte opposta. Una prima parte di violenza teorizzata e raccontata verbalmente si specchia e si compensa con una seconda, nella quale quei drammatici progetti vengono mostrati nella loro truculenta realizzazione. The counselor non vuol trasmettere insegnamenti, ma rappresentare i limiti del mondo. Dove la morte, inflazionata risolutrice di imbarazzanti intrighi, confina con la vita e la gravidanza tanto evidente quanto misteriosa della cinica, conturbante e malvagia Malkina. Ambientazioni che in qualche caso ricordano proprio Non è un paese per vecchi, in cui uccidere non costa nulla e il silenzio di un morto è garanzia di sopravvivenza per il vivo che ha sparato. Mondi al limite. Nel New Mexico dei Coen come nella terra di nessuno di The road, fino al connubio delle assolate pampas crudeli che in The counselor convivono con le strade americane, in doppiopetto distratto e stupito, già viste in Burn after reading.
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