Di Caprio “The wolf of Wall street” sbrana lo squalo Gordon Gekko
Il vantaggio di essere salvati dagli italiani è che poi ti offrono vino, cibo, balli e tanta musica…
C’era una volta lo squalo. Poi divenne un lupo. Metafora zoologica di avidità e cinismo. Negli abissi e sulle vette. Comunque, gli estremi. Il mestiere del lupo. L’arte e la spudoratezza di sbranare. Il fascino di divorare senza pietà, quasi per necessità. Quasi per dovere naturale. Aggressività senza rimorsi. Come l’indole prevede. E pretende. Un cattivo per definizione. Ma un cattivo che piace. Non è perfido né malvagio, è implacabile. Spinto da una fame inarrestabile. Un cattivo che attrae. Un cattivo che mette paura. Un cattivo che non semina odio, ma segue l’istinto. Già, un cattivo che attrae. Seduce. E piace alla gente che piace. Un cattivo al quale prestare attenzione. Attenti al lupo, insomma. Su quattro zampe. E perfino su due. Perché il lupo è così. Si maschera. Non è solo quello che emette ululati nella notte. Ma anche quello che veste il doppiopetto.
Per lui, Jordan Belfort, lupo vero, si è toccato proprio il tasto della sua mutabilità. Camaleontico. Versatile, come si diceva una volta. Eclettico, come si direbbe oggi. Quindi inafferrabile. Famelico. Insaziabile. Cattivo. E naturalmente incline agli eccessi. Jordan Belfort, quello vero (a destra nella foto a lato), oggi è un uomo di 51 anni con due divorzi alle spalle e due figli dalla seconda moglie, Nadine, che lo ha lasciato non riuscendo più a sopportare la sua vita estrema. Jordan Belfort, quello vero, oggi è un vecchio lupo della finanza che ha scontato 22 mesi di carcere dopo essere stato condannato a 4 anni. I benefici derivano dalla sua collaborazione con l’Fbi e dalla restituzione dei capitali alle vittime delle sue truffe. Jordan Belfort, quello vero, su questa vita mozzafiato ha scritto un libro, The wolf of Wall Street, che – con lo stesso titolo – è diventato un film di successo, in grazia al binomio di stelle sotto il cui segno nasce. Il regista, Martin Scorsese. Il protagonista, Leonardo Di Caprio. Italo-americani entrambi, non a caso.
Scorsese, americano di seconda generazione, non ha mai negato il suo legame con il Belpaese e si è sempre attorniato di attori dalle origini nostrane. Di Caprio oggi è l’evoluzione di quello che ieri è stato Robert De Niro, con il quale il cineasta dei Queens ha diviso innumerevoli capolavori (Mean streets, Taxi driver, Toro scatenato, Re per una notte, New York New York, Cape Fear, Casinò, Quei bravi ragazzi). E anche in quest’ultimo The Wolf of Wall Street l’omaggio all’Italia è evidente nella festa, dopo il naufragio da cui Belfort viene salvato. Balli, appunto. E la Gloria di Umberto Tozzi. Nella vita del lupo, quel disastro navale ci fu davvero. Avvenne al largo della Sardegna, non della Liguria, come emerge dalle riprese, ma poco importa. E poco cambia nell’economia di una trama che Scorsese e il suo sceneggiatore Terence Winter hanno mutuato letteralmente da Belfort, quello vero, sia attraverso le pagine del suo libro, sia attraverso ripetuti incontri nei quali il lupo degli anni Novanta ha raccontato la sua vita a base di sesso, droga e truffe.
The wolf of Wall Street è dunque un film in cui la fantasia ha pochissimo, se non nessuno spazio. Ciò che si vede è la realtà della finanza americana di quegli anni. Siamo nel 1987 quando il giovanissimo Belfort, interpretato dal carismatico Leo Di Caprio, in scena praticamente per tutte le tre ore di durata della proiezione, si affaccia nel mondo del lavoro nel momento meno propizio. Un lunedì nero. Il 19 ottobre. La culla del mercato azionario americano crolla pericolosamente, per la prima volta dal 1929, con toni da allarme. Belfort si ritrova manager di se stesso e adatta le sue immense capacità di venditore a quanto di più turpe si possa immaginare, la truffa in Borsa. Il successo è assicurato e le ricchezze, sottratte ad incauti investitori, finiscono nelle tasche di Belfort e dei suoi soci che, nel frattempo, hanno dato vita a una società, la Stratton Oakmont, che gonfia le quote azionarie di piccole aziende, intascando i guadagni per poi farle crollare e lasciare senza soldi i sottoscrittori.
Il castello di carte regge, ma non all’infinito. L’Fbi, insospettita dal tenore di vita altissimo di Belfort, ne segue le mosse finché lo incastra. A quel punto l’uomo da considerarsi forse il precursore di Bernard Madoff, deve fare i conti con la giustizia. E perde tutto. Gli amici. La libertà. La moglie. E una vita nel lusso più spinto. The wolf of Wall Street è la storia della parabola di questo vecchio lupo della finanza spregiudicata che spadroneggiava in una giungla senza regole, come lo era il mercato americano alla fine degli anni Ottanta. Un animale sfacciato e famelico al cui cospetto Gordon Gekko di Michael Douglas in Wall Street di Oliver Stone, è una pallida educanda pronta per la santificazione. Ma il film è anche lo spaccato crudele di un edonismo senza confini, in cui il denaro serve per ogni abuso e, grazie ad esso, si acquistano droghe, affetti, donne, auto di lusso, navi e perfino elicotteri.
Un mondo spudorato in cui tutto si vende e tutto si compra. E dove tutto ha un prezzo. Libertà compresa. Acquistata vendendo gli amici di un tempo. Così come il gesto benefico di un Belfort che si concede il lusso di aiutare una socia, prestandole gratuitamente una somma cinque volte superiore a quella che la donna gli aveva chiesto. Lusso e lussuria. Il vero matrimonio del lupo sta in questi due termini tanto simili quanto semanticamente diversi, che animano di una fame insaziabile gli agenti della Stratton Oakmont, tutti provenienti dai bassifondi della semi indigenza e della povertà newyorkese. Dalla disperazione all’onnipotenza il passo è breve, se a compierlo è il lupo assetato di sangue. E, come lui, il branco che calpesta la legalità e si abbandona a orge, come apoteosi dell’eccesso. E’ il mondo psichedelico degli stupefacenti che proiettano in una dimensione altra i protagonisti della scalata. Ai vertici della più fatua ricchezza come in una sorta di paradiso artefatto e a tempo determinato. Quello dell’allucinazione della “scimmia”. E quello della durata – tutt’altro che eterna – della truffa economica. Poi il lupo che fu squalo ed è stato in preda alla scimmia tornò un agnellino.
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