“Whiplash”: sangue e jazz in musica
“Se dai una calcolatrice in mano a un cretino, quello la userà per accendere la televisione”
Si dice che Jo Jones, celebre batterista jazz, nel ‘36 avesse tirato un piatto in testa a Charlie Parker che aveva sbagliato un’entrata. Poi divenne “Bird”. E iniziò a volare. Dopo aver fatto l’unico assolo che la scena americana avesse mai potuto soltanto immaginare. Ed entrò nel mito. Non importa se morì a 35 anni, devastato dall’eroina che fu l’unica padrona della sua vita. Oggi è per tutti Bird. Anche se nessuno lo ha conosciuto di persona. E ancora meno importa “vivere fino a novant’anni, ma nel completo anonimato”.
Finzione e realtà. La storia del jazz racconta una verità almeno in parte diversa. Ovvero che a Charlie Parker arrivò addosso un cembalo, non il piatto della batteria di Jo Jones che in preda alla furia glielo tirò sui piedi e non in testa. Sia come sia, il racconto resta intrigante e, a suo modo, è uno spaccato del dietro le quinte jazzistico di anni lontanissimi che Whiplash di Damien Chazelle mette in parallelo con il mondo della musica di oggi. O tutt’al più di ieri. E le vicissitudini di Andrew Neiman (Miles Teller), batterista jazz aspirante al titolo mai conclamato di miglior virtuoso del mondo, ricalca le sofferenze artigianali di Parker con Jo Jones. Entrato al conservatorio – la Sheffer del film non è che la Julliard school della realtà – si imbatte in un maestro che aveva fatto dell’episodio Parker-Jones il suo nume tutelare nel rapporto con gli studenti. Maltrattamenti e insulti erano all’ordine del minuto, più che del giorno. E chi soccombeva, evidentemente, non aveva i numeri. “Perché Parker non sarebbe mai diventato Bird senza quel piatto in testa”.
Il direttore Terence Fletcher (Jonathan Kimble Simmons) fa perfino vittime inducendo al suicidio per la disperazione. Si commuove, ma si nasconde. E quando la verità viene a galla lo scontro con Neiman non ha esclusione di colpi. Fino a un assolo di batteria che è un braccio di ferro sul pentagramma. Sangue e jazz. Musica che lacera. Distrugge. Ridimensiona vite. La musica proietta nell’empireo e disintegra con la stessa disinvoltura con cui porta in alto. La musica come una palestra. O una cella con sette note e un aguzzino. Perché Whiplash – tra i richiami a Bird e una citazione a Rififi, film di banditi e di bottino girato da Jules Dassin nel 1955 – assomiglia a un intrigo che ricorda Ufficiale e gentiluomo. In fondo anche qui c’è un ufficiale, calvo e glabro con la maglia a carne e un gentiluomo con la faccia da ragazzino. Ha 19 anni e tante ambizioni che lo spingono a tenersi alla larga dalla fidanzata. Deludendola. E perdendola. Un gentiluomo che mostra gli artigli e non si sottrae alla lotta. Per ottenere il suo premio. Quel bottino di cui i delinquenti di Rififi non riescono a impossessarsi del tutto e che Neiman insegue anche quando sembra perduto per sempre.
La musica si accompagna alla storia del cinema con infinite modulazioni. Nel 1927, Il Cantante di jazz di Alan Crosland fu l’artefice di una novità assoluta. E sancì l’ingresso dei film nell’età del sonoro. “Non avete ancora sentito niente” si sentì risuonare tra molta melodia. Il cambiamento, radicale, era alle porte. Da allora ha avuto ruoli diversi. Il commento cui si prestarono tante colonne sonore nel corso degli anni. L’accompagnamento biografico in tanti titoli che ripercorrono la vita delle stelle più luminose. L’ultima in ordine di tempo è Get on up che rievoca la parabola di James Brown. Oppure All is by my side di John Ridley su Jimi Hendrix. Può essere, allo stesso tempo, l’atmosfera di una generazione. Si pensi al Frankie Valli di quei suggestivi anni Cinquanta negli States di Jersey boys di Clint Eastwood, sempre per riferirci a pellicole vicine. O alla rottura di schemi sociali quando Mrs Robinson provò a sedurre il fidanzato della figlia nel Laureato di Mike Nichols. Era il 1967. E quel brano di Simon & Garfunkel divenne segno di un’epoca. O il sogno di una ragazzina che aspetta – anch’essa – l’ammissione alla Julliard, prima di finire in coma in Resta anche domani di R. J. Cutler. Ma la musica è riabilitazione di malati di mente come avviene in Frank di Lenny Abrahamson, in cui i protagonisti sono in musicoterapia con libero sfogo di creatività. E’ contrasto tra dittatura e liberalismo, come nel Concerto di Radu Mihaileanu e suprema armonia di diversità politiche e sociali. E’ l’ultima speranza di una condannata a morte dal male peggiore in Una canzone per Marion di Paul Andrew Williams. Ed è terreno di scontro, sociale e psicologico, in Una fragile armonia di Yaron Zilberman. E si potrebbe continuare. Forse all’infinito. Trovando accordi e assonanze. Perché musica e cinema sono tutt’uno.
Fino al sangue versato sui tamburi. Fino a Whiplash che è la sfida oltre il limite. Il proprio limite. Al di là del raggiunto e del raggiungibile. Al di là del dolore. Soglia fisica, contrapposta al sublime piacere della vibrazione intellettuale. E il film di Chazelle è l’oltre. Un oltre musicale che tocca la psicologia. I nervi. Il fisico. Il carattere. La resistenza. La vendetta. La violenza. La tortura. Nascoste dal dolce fascino di un brano jazz. Riesumato dalla memoria di Hank Levy e nulla a che spartire con il brano dal medesimo titolo inserito dai Metallica nell’album “Kill’em all” e riferito al reiterato movimento con la testa a ritmo – headbunging – durante i brani di metal estremo. E tanto meno ancora c’entra il brano scritto da Britney Spears per Selena Gomez , sesta traccia di “When the sun goes down”.
IL RETROSCENA – Quello che il cinema non dice è che Damien Chazelle non voleva fare il regista. Era una seconda scelta. E nemmeno tanto quotata. Voleva fare il batterista, invece. E Whiplash è la sua storia. Il racconto di un sogno tradito. Un’ambizione covata e alimentata. Un’illusione massacrata da un insegnante perfido e implacabile. Con una madre scrittrice di non limpida fama e un padre scienziato informatico. Come viene detto nel film, ma a parti capovolte. E’ il racconto di un amore soltanto sbocciato. Una passione mai abortita, ma accantonata. Per coartazione più che per autonoma scelta. Qualcosa di cui non si va fieri e di cui Damien Chazelle porta ferite nascoste. Nell’impossibilità di diventare quello che avrebbe voluto, ripiega sul grande schermo. Scrive la sceneggiatura del suo pezzo di vita travolta, ma snobba se stesso come regista. Il lavoro resta sulla carta e nel 2012 entra nella black list dei progetti che non hanno avuto la forza di nascere. Ma il caso vuole che l’occhio di una produttrice cada proprio su questo scritto e ne azzarda il nome dell’attore per il ruolo del perfido professore: Jonathan Kimble Simmons. A Chazelle viene chiesto un “corto” come prova di lavoro e addirittura viene accettato al Sundance film festival nel 2013. Piace. Spuntano i dollari. A montaggio ultimato si sollevano cori di elogi. E arrivano cinque nomination agli Oscar 2015. Il sogno di riserva porta fortuna a Chazelle. Di lui, Jonathan Simmons, poi designato a impersonare il prof, uno che ha recitato per Woody Allen (Celebrity) i fratelli Coen (Ladykillers, Burn after reading, Il Grinta), Jason Reitman (Juno) e Lasse Hallstroem (Le regole della casa del sidro) ha detto: “Mi aspettavo un nero alla Antoine Fuqua, invece mi sono trovato davanti un ragazzo di buona famiglia. Bianco. Timoroso. Me lo sono mangiato. Ma lui diventerà un grande”.
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