p3Non dovremmo forse mostrare ai nostri nemici ciò che siamo….

 

Pezzi di secolo breve. Anzi brevissimo. Frammenti di una cronaca che tale non è più, ma è troppo giovane per essere già parte della Storia. Con Il ponte delle spie, Steven Spielberg torna a puntare la macchina da presa sui temi che più gli stanno a cuore. Quell’intersezione in cui gli avvenimenti cessano di essere semplicemente tali e diventano simboli di una contrapposizione politica. Era accaduto con Schindler’s list prima e con Munich poi. L’Olocausto, ovvero lo scontro nazisti-ebrei e il conflitto israelo-palestinese sfociato nell’attentato ai Giochi olimpici del ’72 ai danni degli atleti di Tel Aviv. Oggi si ripete nel braccio di ferro Est-Ovest ai tempi della Guerra fredda. Un caso realmente avvenuto quando un pilota dell’aeronautica americana venne fatto prigioniero da Mosca e una spia sovietica fu condannata dai tribunali degli Stati Uniti. Francis Gary Powers nelle mani di Mosca. Rudolf Abel in quelle di Washington.

p1La trattativa per lo scambio dei due “ostaggi” finisce così al centro della ricostruzione storico-cinematografica attraverso la figura dell’avvocato James Donovan (Tom Hanks), incaricato dalla Cia di gestire la diplomazia per favorire la transazione. Il film, inserito nella categorie più diverse – thriller, spionaggio, drammatico – non è nulla di tutto questo ed è invece qualcosa di molto più complesso. Le chiavi di lettura di un intreccio, a prima vista semplicistico, partono da un concetto generale che è quello dell’assetto internazionale delle relazioni fra le due superpotenze del secondo dopoguerra. La vicenda si svolge negli anni Cinquanta quando la tensione è alle stelle. Il conflitto, mai sfociato in un confronto armato, è fatto di reciproche accuse. Parole. E modi di interpretare l’egemonia. Il riflesso si riverbera nel film nei due modi di interpretare i medesimi fatti. La cattura di un pilota alla guida di un velivolo incaricato di scattare fotografie del territorio sovietico e le accuse a una spia silenziosa che rifiuta di collaborare e accetta di buon grado le prigioni americane al posto di essere rispedito in patria.

p2Il denominatore comune è il tentativo di strappare ai due “ostaggi” rivelazioni che chiariscano i segreti della nazione rivale. La differenza sta tutta nel modo di intendere questa detenzione. Il regime stalinista seppellisce in un tentato oblio il militare americano mentre il governo di Washington si interroga con diversi esiti sul ruolo della democrazia e il rispetto. Si scende così in un livello più approfondito della Storia e di questo capitolo di metà Novecento. In America si assiste a un diverso approccio all’argomento. I prigionieri di una guerra-non guerra hanno diritto a una difesa equa o piuttosto chi eventualmente difende l’inquisito finisce per essere tratteggiato come una sorta di complice. “La chiamiamo Costituzione ed è ciò che ci rende americani” perché “tutti hanno diritto a una difesa… ognuno di noi è importante“. Qual è, insomma, il confine tra equo e iniquo. Tra rappresaglia e guerra. Tra tutela della nazione e rispetto delle regole. L’immensa platea statunitense punta l’indice sull’inviso e l’avvocato rischia di pagare di persona una professione e, nello specifico, un ruolo che può solo provocare il dissesto professionale del legale. Non resta che agire sotto copertura anche nei confronti della stessa famiglia. Donovan, a suo modo, è prigioniero di se stesso e di un’idea che nulla ha a che spartire con la ragion di stato, ma con quella dell’opinione popolare.

p4A un livello ulteriormente più circoscritto, lo scambio Powers-Abel rappresenta il rischio della ritorsione personale. Entrambi sono sotto scacco. Nemici fra i loro stessi “amici”. E non sanno se è peggio restare nelle prigioni avverse o tornare a casa. Temono. Il pericolo è quello di essere eliminati in modo subliminale perché aprioristicamente ritenuti delatori dei segreti nazionali, durante il soggiorno nei confini del nemico. “Tutto dipenderà dove mi fanno sedere. E se mi abbracciano” dichiarerà Abel a Donovan poco prima di attraversare il ponte di Glienicke. Un punto di Berlino dall’alto valore simbolico. Sovrasta infatti il fiume Havel dove si tenne la conferenza sull’Olocausto con Adolf Eichmann. All’epoca separava la parte sovietica della città da quella americana. Insieme al muro, era l’icona della divisione tra Est e Ovest. Due mondi in uno. Oggi separa il quartiere di Brandeburgo dai sobborghi di Potsdam. Abel, che in realtà si chiamava Vilyam Fischer, è morto nel ’71. Di rado è stato fotografato e ancor più raramente è stato intervistato. Di lui Spielberg ha offerto un ritratto a tutto tondo che tratteggia la spia silenziosa, che non parla, ma comunica attraverso una “moneta vuota”. Compie una missione, insomma. E’ un braccio dell’articolata organizzazione, non il cervello. Ma al tempo stesso è un artista. Un pittore. Un essere apparentemente innocuo, che tuttavia mette in serio pericolo la sicurezza americana. Powers è invece il bamboccio. Il figlio di papà a stelle strisce. Comunque vite. Salvate da un avvocato, ma indifferenti ai popoli. Perché la guerra fredda era un confronto di idee e di ideologie. I singoli erano piccoli dimenticabili meccanismi di un ingranaggio che la Storia ha ruminato. E consegnato all’oblio.

p6IL RETROSCENA – Il ponte delle spie si avvale della fotografia di Janusz Kaminski, al fianco di Spielberg da Schindler’s list in poi. Un ulteriore anello di congiunzione che lega questo film al tessuto di interessi del regista. E alla sua attenzione verso la Storia. Al tempo stesso è un collegamento per immagini che unisce il passato al presente. Come una sorta di proseguimento. La fine di Schindler’s list prosegue idealmente con questo film cui la fotografia di Kaminski risulta evidentemente molto più di un nesso. A discostarlo invece dalla filmografia di Spielberg ecco la partecipazione dei fratelli Coen alla stesura della sceneggiatura del Ponte delle spie. I due registi di Fargo e Non è un paese per vecchi offrono e aggiungono alla trama la loro impareggiabile capacità ironica e quel pizzico di umorismo che non stona, ma serve a rendere l’idea che non è il film a essere assurdo, bensì la realtà stessa. Anche per questo, tutti i personaggi non hanno alcuna connotazione particolari. Le spie sono gente comune sulla quale il sospetto sembrerebbe non avere diritto di cittadinanza.

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