“Remember”, la vendetta senile corre sul filo della memoria contesa
Storia di un mascheramento. Nascondersi. Semplicemente Storia. O meglio, i residui di essa. Le settimane a ridosso della Giornata della Memoria offrono brandelli di Olocausto. Frammenti di sofferenza distillati nel tempo. Come se non fosse passata che un’ora. Come se non fossero mai stati ascoltati – e nemmeno narrati – tanti racconti, scampoli di Shoah. Casi di vita che approdano nella finzione con la stessa intima convinzione che, in fondo, in qualche angolo di mondo, sia senz’altro accaduto qualcosa di simile. Se non di uguale.
Nell’universo di Atom Egoyan, regista canadese di origini armene, al quale dobbiamo Il viaggio di Felicia (1999) e Devil’s knot – Fino a prova contraria (2013), l’odio può più dell’amore. Anche se assai di frequente si cela proprio dietro le spalle di quest’ultimo. Vi si annida e ne cambia addirittura i connotati. Come accade in Remember, già dalla prima scena. Il protagonista – l’anziano Zev, a un passo dalla completa demenza senile – chiama la moglie Ruth, appena si sveglia. Come se fosse ancora viva. La cerca. La invoca. È l’accorato appello di un vecchio. Sos dell’incoscienza. L’ebraismo superstite ha completato il suo cammino terreno per raggiunti limiti di età. Zev è in una casa di riposo dove altri, come lui, hanno solo gli occhi di una memoria, spesso obnubilata da una malattia fisiologica. L’invecchiamento.
A soccorrerlo è invece il coetaneo Max, 90 anni e dintorni. Lucidissimo, ma con difficoltà respiratorie. Gli consegna una lettera con i datati propositi di quell’inconsolabile vedovo, quando era più giovane. Trova una mazzetta di banconote e una serie di appuntamenti. È un viaggio. Lo scopo è la vendetta. I criminali di Auschwitz che i processi non hanno punito e, grazie alla superficiale cecità umana, sono stati ospitati fra le pieghe della società, come anonimi esseri “nuovi”, mondati da ogni colpa, vanno puniti. La missione di Zev è semplice, insomma. Deve trovare Rudy Kurlander, che ne sterminò a migliaia. Tra i tanti anche la famiglia di Max. L’itinerario di Zev nasconderà la sorpresa che nessuno attende. E nemmeno si attende. Ma la verità verrà a galla. E sorprenderà. Come la determinazione del vecchio che fatica a riconoscere perfino i contorni di se stesso.
Odio dunque alle spalle dell’amore. Come la giovane Felicia che rincorreva il fidanzato fuggito dopo averla messa incinta, ma s’imbatteva nel satiro Hilditch, prigioniero della schiavitù nei confronti dell’ingombrante madre dalla quale gli derivava l’odio verso il genere femminile. E come nel perfido autore di un delitto mai risolto in Arkansas dove amore, odio e vendetta si mescolano fino a perdere la nitidezza delle rispettive forme. In Remember il vincolo affettivo del protagonista verso la moglie si collega a quello per l’amico e vicino di stanza alla casa di riposo, due figure spiegate anche attraverso la patologia che li caratterizza. Max è lucidissimo e decisissimo. Telecomanda a distanza – dalla sedia a rotelle – le mosse del suo sicario personale. Non respira. Sopravvive attaccato all’ossigeno. Dipendente da un rifornimento che non gli permette di respirare autonomamente. Senza quell’aiuto è asfissia. Per ciò che gli è lontano nella memoria e ciò che gli è vicino nella presenza. Per quello ieri di Auschwitz. E per il vecchio Zev.
Quest’ultimo ne è specularmente il contrario. Agile negli arti e nei movimenti, ma imbrigliato in amnesie e fantasie che lo spingono in terre inospitali, perfino con il pensiero. Ombre remote lo mordono. Altre gli impongono prospettive irreali. La malattia non è casuale e appartiene al linguaggio di Egoyan o quanto meno al repertorio dei suoi temi preferibili. Malato e folle era Hilditch. E altrettanto psicopatico era il mostro dell’Arkansas. La demenza di Zev è una spia. L’immobilità di Max rappresenta una sorta di demiurgo oscuro e lontano che governa i destini umani. Una limitazione per una moltiplicazione. La stessa apprensione che circonda gli inseguitori dell’anziano giustiziere, preoccupati solo dalla patologia del loro congiunto. Una demenza che porta vuoti di lucidità in cui si dissolvono gli eventi del passato. Gli stessi che vorrebbero archiviare per sempre anche i presunti aguzzini inseguiti da Zev. Storia da dimenticare che nessuno dimentica. Le conseguenze del secondo conflitto mondiale sono sotto gli occhi del pubblico del grande schermo nei titoli – Il labirinto del silenzio di Giulio Ricciarelli, Il figlio di Saul di Laszlo Nemes, Francofonia di Alexander Sokurov – che il cinema ha dedicato loro in questi giorni. Della memoria.
IL RETROSCENA – A parte il trucco cui è stato sottoposto Christopher Plummer, al quale – nonostante l’età – sono state disegnate migliaia di rughe sul volto, il film di Atom Egoyan richiama a vicende accadute lo scorso anno proprio durante le riprese del film. La trama mostra occasionali ma impressionanti somiglianze con il caso di Johann Breyer, 89 anni, sospettato di crimini nazisti per il suo ruolo di guardia ad Auschwitz. Breyer viveva tranquillamente in quel di Filadelfia ed era ricercato dalle autorità tedesche. È morto durante la detenzione dall’Us Marshal service in attesa che la richiesta di estradizione chiesta da berlino fosse vagliata dalle autorità di Washington.
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