IL FILM

labiSono trascorsi tredici anni dalla fine del conflitto. La Germania è una nazione ricostruita, ma non ancora divisa da un muro. Johann Radmann è un pm “relegato” agli incidenti d’auto. Finché un giornalista irrompe in tribunale e accusa i giudici, indiscriminatamente, di disinteresse al fatto che un insegnante fosse stato in passato una guardia ad Auschwitz. Parola nuova per molti tedeschi che continuavano a sostenere di non saper nulla dei lager. Il pm raccoglie silenziosamente la sfida, nell’ostracismo dei colleghi. A incoraggiarlo è il procuratore generale Fritz Bauer, cacciatore di nazisti, “blindato” dalla mancanza di mezzi legali per un’azione penale contro gli ex ufficiali. Ma Radmann, entrato in amicizia con il fumantino giornalista, riesce a mettere le mani su documenti scottanti che fanno luce su uomini che torturarono, uccisero o lasciarono uccidere, riciclandosi – nella neonata Bundesrepublik – come tedeschi dal passato immacolato. In tribunale inizia la processione dei sopravvissuti ai lager di fronte ai loro torturatori ma, tra le pieghe della ricerca, spuntano verità che travolgono tutti, lasciando sensi di colpa e di resa. Un Paese intero era cambiato per sempre. Il labirinto del silenzio di Giulio Ricciarelli ha superato tutte le selezioni per la candidatura al miglior film straniero in rappresentanza della Germania, ma è stato escluso solo nella determinazione della cinquina finale ed è ispirato al processo indetto da Fritza Bauer nel 1963 contro i complici e gli esecutori dei nazisti nei campi di concentramento.

 

Silenzio, chiave di sofferenze. Torture. Persecuzioni. Imposte e subite. Silenzi esplosivi. Di bufere belliche. E di dopoguerra. Alla fine del secondo conflitto mondiale come nella «sporca guerra». Quella dei desaparecidos, che solo in Argentina fece sparire 30mila giovani nel nulla. Di essa il cinema ha parlato per merito di Stefano Incerti, regista italiano di Complici del silenzio. Era un film del 2009 concentrato su quanto avvenne sullo sfondo dei campionati mondiali di calcio del 1978 a Buenos Aires.

riccia1Sul sacrificio degli ebrei ad opera di Hitler, invece, hanno parlato in molti. Eppure il silenzio resta la dimensione più tragica. Inquietante. E attuale. Perché esistono infinite sfumature di mutismo. A squarciarne il velo è un altro cineasta italiano. Giulio Ricciarelli, stavolta. Figlio di questa Milano da cui se ne andò a 4 anni. Con una mamma e un fratellino più piccolo, al seguito di papà, ingegnere, trasferito in Baviera per lavoro. E qui ha studiato. Si è diplomato in arte drammatica. È diventato un attore famoso. E ora ha compiuto il grande salto, passando dietro la macchina da presa. Con Il labirinto del silenzio ha sfiorato l’Oscar per il miglior film straniero, ma l’Italia non c’entra. Soldi tedeschi. Cast tedesco. Cultura tedesca. Inciviltà tedesca. Per la trama, s’intende. Eppure era arrivato fino in fondo. Solo a metà gennaio, nella scrematura finale, è stato escluso. La colpa è di una sovrapposizione. In gara c’è Il figlio di Saul dell’ungherese Laszlo Nemes, che insiste su un argomento affine. I Sonderkommando dei lager. Ebrei, al servizio degli aguzzini di altri ebrei. Quintessenza dell’odio che vive in punto di morte.

Troppo anche per Hollywood. E ha pagato il silenzio del «tedesco» Ricciarelli, forse perché più legato a una Germania che non è il mondo. Ma un mondo nel mondo. Resta il fatto che questo milanese, emigrato in Baviera con il papà perugino che aveva sposato una donna di lassù dopo un corso di perfezionamento professionale, ha sfornato un gran film. E ha toccato un tasto infido a Monaco e dintorni. Dove tutti, per decenni, hanno detto di non aver saputo nulla di quanto fosse accaduto nei lager. E di essersi nascosti dietro un dito alla fine della guerra. Riciclandosi, come si direbbe oggi. Tra un panino e una smorfia. Come se niente fosse. Da umili fornai. Semplici autisti. Uomini qualunque che obbedivano a ordini.

Il silenzio. Avvolgente come le vite di chi fu condannato a ignorare che cosa sia stato il proprio padre tra il ’39 e il ’45. Come il protagonista, un aitante pubblico ministero, deciso ad acciuffare Mengele, ma finì per far luce sui tanti che uccisero. E poi dimenticarono. Nascosti dietro un sorriso. È una storia vera quella che Ricciarelli ha rispolverato. Portò al processo organizzato da Fritz Bauer nel 1963, con il quale la Germania fece giustizia alla chetichella degli ufficiali che applicarono la volontà del Führer.

«Ai tedeschi il film è piaciuto. Lo hanno accettato. Elogiato. Der Spiegel ha scritto pagine e pagine. Ma forse nessuno di loro lo avrebbe fatto. E c’è voluto un italiano. A loro modo sono rimasti spiazzati. Mi conoscevano come attore di teatro».

Ma l’hanno ritrovata all’improvviso come regista. A parlare di loro…

«In Germania c’è un’identità nazionale rotta, al contrario di quanto si pensi. Quando hanno vinto i Mondiali di calcio erano felici perché, per qualche giorno, si sentivano finalmente tutti tedeschi».

Mistero dei punti di osservazione. Gli italiani, che si credono sfilacciati, finiscono per apparire più solidi.

«Abbiamo l’orgoglio. Dall’alimentazione alle bellezze nazionali. Italiano è bello, insomma. Anche quando critica se stesso».

In Germania invece…

«C’è un clima da autocensura silenziosa. Quello che fanno altri è meglio, ma non si dice. Il cinema tedesco prima del nazismo, con Lang e Murnau, suscitava emozioni. Dopo l’Olocausto tutto è cambiato. Il popolo di poeti e filosofi non si dà pace di essere stato capace di combinare quel cataclisma. E nulla è più stato come prima».

In una parola, si chiama vergogna.

«L’orrore e il disonore li ha ammutoliti e fatti a pezzi. Li ha spinti a mettere una pietra su quel passato. A cercare di tacere per rimuovere tutto».

Impossibile cancellare qualcosa di tanto grande.

«È un passato che non è finito. Anzi, non è neppure passato. Oggi i nipoti non sanno chi furono davvero i nonni. Si rifiutano di indagare. E di sapere. Per paura di trovare scheletri. Quasi ad ogni presentazione del film sono venuti a ringraziarmi sconosciuti che mi hanno raccontato storie occulte e occultate delle loro famiglie. In ognuna di loro c’erano parenti morti nei lager o torturatori sotto mentite spoglie».

E a loro lei ha dato voce e volto. Forse ricordando anche Music box di Costa-Gavras incentrato su questo tema.

«Il protagonista del Labirinto del silenzio scopre questa sfera di morti viventi. Dà loro una fisionomia. Una sofferenza. A suo modo, anche una pace. Ecco, serviva uno sguardo esterno. Un non tedesco che tuttavia conoscesse bene il volksgeist tedesco».

Italia o Germania, dove si sente a casa…

«In nessuna delle due. Sono un apolide. Un cittadino dell’universo. Ma amo l’Italia e il nostro cinema. Vorrei fare qualcosa di serio, però. Ho idee che cercherò di sviluppare. Sono un esordiente in là con gli anni».

Ma non è un novellino della Settima arte.

«Ho iniziato con qualche documentario per dimostrare che non me la cavavo solo sulla scena. Pensavo fosse sufficiente e aspettavo proposte. Poi ho capito che a proporre dovevo essere io».

E ha toccato il nervo più vivo. I tedeschi hanno cercato di nascondere anche il processo del 1963.

«Però Fritz Bauer è una sorta di eroe nazionale».

E ha scelto lui per la sua prima vera regia.

«È affascinante. Dietro la macchina da presa si scopre un mondo. Recitando, invece, se ne vede soltanto una parte. Al regista serve una storia, ma non basta. Occorre psicologia per scoprire i lati più nascosti di eventi e persone. E una sorta di finanza per sapere che cosa esattamente ci si può permettere».

Nella sua famiglia come è stato accolto il film.

«Mio padre ne va giustamente orgoglioso. Mia moglie Lisa Martinek ha recitato in un cameo. E la ringrazio perché in quel ruolo mi ha tolto le castagne dal fuoco. È la mia complice e confidente. Mia madre è una tedesca soddisfatta di me. Ella, Klara e Luka – ovvero i miei figli – sono troppo piccoli. Ora si limitano a correggere il mio italiano. Un giorno capiranno».

Che cosa dovranno capire.

«Tacere non è una soluzione. Tacere è morire».

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