mil1Echi orientali di notti arabe. Storia di un califfo cattivo che non c’è più. E di una damigella che sfida lo spirito da mantide al maschile impadronitosi del sovrano. Sposa. Si accoppia. E uccide. Storia di una vendetta per far pagare nel genere femminile il tradimento di una donna sola a una moltitudine senza confini. Sherazade sfida le regole. Racconta storie che non finiscono. E tiene il califfo avvinghiato a un sogno. Il suo sogno. Il suo domani. Forse l’amore. Le mille e una notte di Miguel Gomes però non ha nulla degli affascinanti profumi classici di melodie costruite con le parole. E sogni di carta nelle tenebre arabe. Sherazade è una delle tante. Non c’è paradiso. Non c’è inferno. C’è solo un’eterna fuga da ingiustizie e follie. Come se una poco provvidenziale Sherazade raccontasse i suoi deliri a ognuno di noi. Caricasse di segni rossi e violenza le grandi sconfitte quotidiane e le piccole reazioni individuali.

mil3Non c’è nulla di classico in queste Mille e una notte profano suono di orrore latino. Un Portogallo vessato da crisi di ogni tipo – sociali, politiche ed economiche – è il teatro di questo dramma casereccio che mette a dura prova la pazienza del pubblico. E farà impazzire quel segmento della critica che vede negli adattamenti la perla del futuro e il genio che adatta il classico a un moderno sempre più post moderno. Inutile girarci attorno. Trattasi di film scadentissimo che tradisce il meraviglioso e sorprendente gusto classico dell’originale. C’è un garbo per raccontare la crisi e il cinema francese lo insegna molto bene. Questo film portoghese non coglie nulla degli insegnamenti e si arena a piccoli e insignificanti episodi che compongono un mosaico da buttare più che da ricordare. Il paradossale processo a un gallo che canta in anticipo svegliando gli abitanti delle case vicine. Un portuale che perde il lavoro. Le vessazioni per i tagli richiesti dall’Europa e un triste rimedio, in salsa di viagra, a tutti i mali che costringono a sacrifici economici. Come se un accoppiamento salvasse dai problemi. Un amore giovanile fatto di messaggi telefonici e amanti lasciate che si sfogano incendiando colline. “Bruciano come il mio cuore per te” dice la giovane piromane per far tornare il suo Rui. La follia collettiva di un bagno fuori stagione. Una balena che esplode, simbolo di un sogno funesto avvolto nelle spire dell’impossibile. la massaia che vota tutti i partiti per non sceglierne nessuno.

mil4Le mille e una notte sono insomma una collana di fatti e fatterelli accaduti fra il 2013 e il 2014 in Portogallo e raccontati in forma romanzata illudendosi che a farlo sia appunto un’ipotetica Sherazade. Chi sia il califfo cattivo è invece tutto da chiarire. Nessuno ha chiesto a Miguel Gomes alcunché che si presti a una vendetta tanto astrusa. Due ore di noia, attraverso scollegati racconti su un nulla normale che appartiene a stralci di crisi nei Paesi occidentali. Ne esce un’opera logora già in partenza che annuncia come una minaccia di devastazione psicologica il prossimo arrivo del volume 2 e addirittura di un volume 3. Se questa puntata è intitolata “Inquietudine”, le successive saranno contrassegnate da “Desolazione” e “Incanto”. Anche in quest’ultimo però non c’è nulla di positivo, se non una comunità di uomini arroganti che si piccano il diritto di insegnare a cantare agli uccelli. Selezionato da “Milano film network” Le mille e una notte è un film adatto a chi ama veder violentare un testo classico di eccellente valore e significato fiabesco. A chi si illude che qualsiasi insulsa ripresa sia la nuova frontiera del cinema. A chi, senza capire nulla, potrebbe farsi portavoce della tesi secondo cui il regista ha letto fra le righe del testo anonimo. E via elencando. Soldi e tempo gettati alle ortiche. Questo purtroppo non è cinema. E arriveranno gli altri due capitoli…

franA proposito di classici violentati, non si è sottratto alla tortura anche un altro personaggio notissimo. Frankenstein di Mary Shelley è finito nel tritacarne di Bernard Rose. Più che brutto, ne è uscito un film disgustoso, nell’accezione più propria del termine. Ai limiti della sopportazione senza contrazioni al piloro. Adatto a chi ha insoddisfatte ambizioni della più bassa e impietosa macelleria o un’insaziabile sete di sangue umano, il film è un’inutile secchiata di liquidi organici di qualunque origine in faccia allo spettatore. In realtà non si può parlare nemmeno di trash perché sarebbe come offendere una pattumiera. L’impresa è ai limiti dell’impossibile, ma anche in questo titanico tentativo si può centrare il traguardo. In tal senso, Frankenstein riesce nell’intento, fondendo un insieme di apporti eterogenei che vanno dall’azzardo di fondere tematiche assolutamente diverse ai limiti dell’incompatibilità. La clonazione di un essere umano come prodotto di laboratorio che porterebbe alla creazione di un soggetto alienato. Estraneo. Qualcuno che si trova al di fuori dal  mondo pur essendone parte. Una sorta di extraterrestre dalle fattezze umane e dai lineamenti mostruosi. L’orrido, come quel qualcosa che si è portati a evitare perché lontano da noi. Dal nostro essere comunità. Non a caso quel risultato delle provette dei due coniugi si chiama mostro e reagisce solo alla cattiveria umana contro gli animali. Essendo egli una creatura orripilante – icona visibile dell’incompatibilità con il genere uomo –  non si limita a uccidere attraverso le forme più brutali e inutili. Alchimia e forme di alienità si sposano con l’incomunicabilità in ogni sua prospettiva. Il film tradisce tutto. Attese. Testi letterari. Autori. Immagini. E perfino chi entra al cinema nella certezza di gustarsi un horror e assiste invece a una porcheria inguardabile. Restano inquietanti interrogativi ai quali urge risposta. Che necessità c’è di maltrattare i classici. E che utilità trae il cinema nel produrre questi disgustosi orrori.

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