“Colonia”, la vergogna desaparecida
Sepolti vivi per sempre. Ricordi di un passato tragico che la dittatura ha creato e l’uomo ha seppellito, forse per disperazione. Invece. Il rimedio è il ricordo. Abusi. Uomini e donne soggiogate psicologicamente. Prevaricazioni. Azzeramento del desiderio fisico come forma di prevenzione della socialità e dell’aggregazione. Reclusione. Punizioni. Torture. Succinto campionario di varia disumanità nascosto tra le pieghe di Colonia dignitad, un vero e proprio lager, che ha come paravento una comunità ispirata al suo guru. Paul Schäfer ne è il dittatore in miniatura, allievo di un dittatore vero come Hitler e di un collega del crimine come Pinochet. Il Cile del colpo di stato contro Salvador Allende è lo sfondo di Colonia di Florian Gallenberg che rispolvera dopo più di quarant’anni l’epopea di un luogo di detenzione e soprusi, ignorato dalla storia recente. Una via insolita verso la dimensione dei desaparecidos, pur incrociandone il cammino. I rastrellamenti allineano allo stadio di Santiago – lo stesso di Missing di Costa Gavras – i giovani ormai prossimi all’eliminazione fisica. Altre deportazioni finiscono per arricchire Colonia Dignitad, oggi denominata Villa Baviera, gestita in stretta collaborazione con l’ambasciata tedesca. La cessione dei sotterranei per le operazioni di tortura della giunta militare cilena si coniuga con l’oblio cui sono destinate le vittime della sopraffazione.
Il dato storico si inserisce nella storia d’amore fra Daniel (Daniel Brühl, il Lauda di Rush e il gestore del ristorante ne Il sapore del successo), fotografo tedesco in trasferta come supporter socialista in Sudamerica, e Lena (Emma Watson), hostess che approfitta delle pause per coltivare la passione del suo cuore. Quando Daniel sparisce, la ricerca di Lena diventa spasmodica. E la donna decide di entrare volontariamente nella lugubre e ambigua comunità dove gli è stato assicurato che sia rinchiuso il fidanzato. Questi nel frattempo si finge tonto per risultare insospettabile nelle sue ricerche di una via di fuga dal campo, delimitato da barriere elettrificate di hitleriana memoria. Quando la coppia si ricompone – di soppiatto e a fatica – i due uniranno le forze per beffare l’odioso aguzzino travestito da santone benefattore. Servono complicità e connivenze che naturalmente mancano, ma questo è il labirinto della dittatura e della perversione. Dove ogni delitto è mistero e, al tempo stesso, ogni delitto e ogni mistero sono rivestiti della patina (im)presentabile della falsità e dell’ambiguità. La dimensione sommersa del secolo breve non è solo seconda guerra mondiale. A sorprendere è l’internazionalismo dei soprusi che diventano omicidio. Soppressione diretta o indiretta di vite umane. In Colonia l’incrocio riporta alla memoria le tristi vicende dei vecchi arnesi del nazismo, superstiti dal processo di Norimberga e in fuga verso una zona franca dove continuare imperterriti la loro nefanda azione. Schäfer è un epigono di questa orrenda schiatta che la memoria ha sottratto alla Storia. Ora, a restituircene le gesta, è un film che pone in primo piano le connivenze tedesche con le repressioni dei generali cileni nell’ambito di una strategia mondiale che preferì Pinochet al comunista Allende in un periodo ancora cupo della tarda guerra fredda.
Colonia è un’opera che non merita l’oblio, ma la valorizzazione. Restituisce un fascio di luce su una verità sepolta che nessuno conosce. Schäfer, nato nel 1921 a Troisdorf, aderì alla gioventù hitleriana e fu arruolato come medico nel secondo conflitto mondiale. Fece carriera militare e, quando fu accusato di abusi sessuali su minori, fece perdere le sue tracce, abbandonando la Germania. Rispuntò in Cile dove fondò Colonia Dignità che oggi si chiama Villa Baviera dove continuò imperturbabile a commettere abusi e stupri, all’ombra dei vari governi che lo avevano protetto. Schäfer si eclissò nel ’97 e, sette anni dopo, un tribunale cileno lo condannò in contumacia. Acciuffato nel 2005 in Argentina, venne estradato in Cile dopo una rapida trattativa e la sentenza fu cupa. Vent’anni per aver violentato donne e minorenni, oltre ad aver favorito la scomparsa dell’attivista politico Juan Maino e quella del matematico russo Boris Weisfeiler. È morto in carcere nel 2010. Si calcola che dei trecento reclusi di Colonia Dignitad, soltanto cinque riuscirono a tornare a casa. Una media drammaticamente più ridotta di tanti campi di concentramento nazisti sparsi in tutta Europa. L’attualità della vicenda rivelata da Gallenberg tocca diversi temi. Il riciclaggio di figure legate ai regimi più tetri del Novecento in Sudamerica, territorio che ha dato ospitalità a moltissimi ufficiali in fuga dal loro passato nazista. Ma non solo. Il ripetersi, sotto mentite spoglie, di repressioni altrettanto cruenti, connesse alla continuazione di crimini che la fine della guerra sembra aver soltanto interrotto. Delitti a catena senza passaporto in un film che attraversa la storia di un secolo in cui la dittatura non ha smesso il suo ruolo di incubo senza confini. A tutt’oggi, quei misteri non sono stati ancora completamente svelati. Colonia contribuisce a squarciare il velo su una parte della Storia che ha la particolarità di legare il passato hitleriano a un altro passato – stavolta più recente – targato appunto Pinochet. Non è insomma lo stesso dramma e gli stessi temi, ma un nuovo fronte fatto di oblio. Ed è quello che spaventa. Non abbiamo ancora finito di sapere che cosa ci sia davvero dietro i milioni di morti del Novecento.
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