imagesQuella casa ordinata, piena di carte che raccontano pezzi di vita, è rimasta vuota. Sola. Michael Cimino, il regista che vinse cinque Oscar con Il cacciatore, si è addormentato per sempre. Se ne sono accorti gli amici, pochi, ai quali quel silenzio prolungato proprio non andava a genio. Quando le forze dell’ordine sono entrate, il divo di Hollywood riposava. Ma a differenza di tante altre sere non si sarebbe più risvegliato. Aveva 77 anni e ora saranno i medici a dire che cosa è accaduto. L’ultima volta che aveva affrontato il suo pubblico era poco meno di un anno fa. Al festival di Locarno aveva ricevuto il Pardo alla carriera che si è portato orgogliosamente a New York, pur non avendo fatto mistero della sua bruttezza. “Sembra un pollo” disse allora. E da quel giorno, erano i primi di agosto, dopo un bagno di folla che gli regalò applausi da tempo dimenticati, riprese la strada degli Stati Uniti. Il Paese che mai lo ha amato davvero e sempre lo ha criticato, nella stessa misura in cui lui – italoamericano come molti altri volti del cinema – lo aveva ricambiato della stessa moneta.

Nel Canton Ticino aveva scoperto che il mondo – almeno al di qua dell’oceano – non lo aveva relegato nell’oblio.  E, nonostante l’età e molti chili in meno che lo rendevano di un appeal diversissimo dalla sua gioventù, si ritrovò tempestato di fotografie. Un tempo erano i flash dei fotografi, un anno fa erano i cellulari. Lui rispose da gentiluomo, più legato al secondo che al terzo millennio. “Non perdetevi a fare foto, parlate con me”. Michael Cimino era l’antidivo. Non aveva mai digerito il sistema e poco sopportava il commercio. In 22 anni di carriera ha girato sette film. Con uno di essi, Il cacciatore appunto, ha sbancato Hollywood con cinque Oscar. Ha diretto Clint Eastwood quando era solo un attore (Una calibro 20 per lo specialista) e, con L’anno del dragone, ha lasciato un’altra impronta di sé nella storia del cinema. Di più non gli serviva. Non viveva di celluloide e alla Settima Arte era arrivato per caso. “Dovevo fare l’architetto, non so come sono finito a Los Angeles. Devo aver sbagliato strada e non sono più riuscito a trovare quella giusta” aveva dichiarato recentemente.

UnknownIl suo aspetto eccentrico e originale nulla c’entrava con le diversità di oggi. “Sono un designer prestato alla celluloide, ma in fondo, pur sbagliando direzione, mi sono accorto che il set era un’ottima alchimia per trovare belle auto e belle donne”. Erano i suoi esordi nel mondo della pubblicità, ma Cimino, antidivo per eccellenza e uomo controcorrente nell’establishment cinematografico, non sarebbe apparso molto diverso neppure dopo essersi portato a casa quei cinque Oscar grazie a una storia del Vietnam. Odiava le guerre – “sono la follia degli anziani della quale i giovani pagano il conto e sarebbe il momento di finirla una volta per tutte” – e amava l’uomo che voleva conquistare il mondo. “Mi intrigano i personaggi, senza di loro non esisterebbe storia” aveva spiegato. E amava quegli scrittori che sapevano guardare dentro di sé. “È complicato essere autentici con noi stessi” ripeteva, giustificando così perché i fatti reali lo attraessero più della dimensione fantasiosa.

Cimino non aveva mai abdicato alle sue idee. E non aveva mai avuto paura di buttarle in faccia ai potenti delle produzioni cinematografiche. Pagò. E mai si lamentò. Anzi. Si fece una ragione di quel suo essere una campana stonata nel coro intonato dell’opportunismo. E mai si lasciò contagiare – né in positivo né in negativo – dalle recensioni. “Non le leggo e basta. Nè belle né brutte”. A questo carattere non ha mai smesso di tener fede. Anche ieri. Da anziano. Dimenticato dalle celebrazioni. E ha preferito addormentarsi così. Solo. Al chiuso della sua casa. Lontano da nemici, parole o decibel. Lasciando agli altri l’onere di scoprire perché quella pennichella non sarebbe mai finita.